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Swedish Grace, un défilé di raffinatezze

Swedish Grace, un défilé di raffinatezzeCarl Hörvik, Cabinet e poltrone, 1925, produzione Nordiska Kompaniet, Stoccolma, Nationalmuseum

A Stoccolma, Nationalmuseum, la mostra "Swedish Grace. Art and Design in 1920s Sweden", a cura di Cilla Robach Nel segno di Greta Garbo e del designer in materiali esotici Carl Malmsten, la fuggevole festa mobile dell’Art Nouveau svedese: dai jazz boys su tacchi oscillanti ai vasi purissimi, senza bolle...

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 giugno 2022
Greta Garbo fotografata da Arnold Genthe, 1925

Che anno, il 1925, dalle parti di Stoccolma, dentro le manifatture di Orrefors e presso gli studi cinematografici di Lidingö, sul palco dell’Oscarsteatern, fra le fila irrequiete del corpo di ballo diretto da Jean Börlin!
Tutto potrebbe riassumersi in una vicenda da favola.
In breve: giovane vendeuse di magazzini alla moda, trova il principe azzurro, sale su una slitta, perde qualche chilo e diventa una diva. «Vill ni se en stjärna?»: così il già famoso Ernst Rolf, cantante leggero e ideatore di riviste, avrebbe sintetizzato a suo modo una storia tanto straordinaria, l’incredibile fortuna toccata in sorte a Greta Gustafsson, assunta dapprima nel dipartimento di couture francese della Nordisk Kompaniet e lanciata in seguito come impareggiabile modello di bellezza sotto un nome d’arte destinato a diventare celebre ma suggerito quasi per scherzo da un’amica. Quale? Garbo, ovviamente.
Glorificata in Svezia da una fama istantanea, la giovane attrice – nata poco dopo l’avvio di secolo – avrebbe conosciuto New York proprio nel 1925 su consiglio di un raffinato pigmalione, il regista Mauritz Stiller, seguendo il richiamo persuasivo delle sirene della MGM: quell’estate bollente sarebbe dunque trascorsa fra bagni ghiacciati in vasche d’hotel lungo Lexington Avenue, sedute dal dentista, passeggiate su e giù per Broadway, anticamere estenuanti per incontrare il dispotico Louis B. Mayer.
Che differenza da quando, soltanto un anno prima, il volto di commessa inquieta segnato con maestria da trucco e parrucco, Greta si era lasciata scivolare sul ghiaccio in un calesse condotto da renne in coppia, inseguita da lupi e coperta di pellicce, nel capolavoro oriundo di Stiller, Gösta Berlings saga, tratto dal romanzo del più antico premio Nobel femminile al mondo, la scandinava Selma Lagerlöf. E tuttavia le immagini catturate nelle settimane di calura dal fotografo Arnold Genthe, d’origine viennese, ancora preservano un’eco gelida della nascita settentrionale della Garbo, al punto che «Vanity Fair», usando per la copertina di novembre il più riuscito di quegli scatti, avrebbe annunciato alle eleganti signore della Quinta: «Dal nord una nuova star».
Un simile esempio di perfezione polare, sembrava compendiare in sé altri successi che – in quegli stessi mesi – venivano riconosciuti ai prodotti svedesi più eletti e quintessenziati.
Il 27 novembre del ’24, il trionfo dei due atti di Relâche, ad esempio, aveva eternizzato al Théâtre des Champs Élysées la fama dei Ballets suédois, compagnia d’avanguardia gestita da Rolf de Maré e destinata a sciogliersi per sempre di lì a qualche mese, assieme all’amore dell’impresario per il suo primo ballerino. Restavano negli occhi del pubblico – in concorrenza con le pose di Nijinski – lo scintillio abbagliante delle coreografie di Francis Picabia fitte di dischi d’argento, luci elettriche e intermezzi cinematografici, oltre che di sipari parlanti, graffiti di manifesti Dada: «quiconque est en désaccord… est prié de quitter la salle».
Nell’aprile seguente, aveva poi aperto le porte sulle rive della Senna l’immensa mostra di arti decorative, motore primo per la vague continentale delle linee astratte promosse dalle geometrie déco. Proprio in questa fiera d’eleganze il padiglione svedese, misurato dall’architetto Carl Bergsten sul modulo gigante di capitelli ionici fuori misura, aveva imposto al mercato del lusso una serie di manufatti convenienti ma d’esecuzione squisita, dal vetro ai tessuti, dagli arredi ai peltri, passando per le ceramiche e il ferro battuto. Risultato? Stoccolma sarebbe uscita trionfatrice da una competizione tanto agguerrita, seconda soltanto al paese ospite nel computo tintinnante di onori e riconoscimenti: 31 gran premi, 44 medaglie d’oro, 38 d’argento, 14 di bronzo, assieme a 29 diplomi e 12 menzioni d’onore. Un elenco di fatto ragguardevole ma che non sorpassa in importanza il gagliardetto critico di un’etichetta assegnata all’insieme dei frutti di quell’epoca d’oro svedese, in vetrina nel parco fieristico stretto tra gli Invalides e il Grand Palais: nel 1930 infatti, la memoria rivolta all’appuntamento parigino, Philip Morton Shand – critico al servizio dell’anglofona «The Architectural Review» – avrebbe parlato di «Swedish Grace», ancora forte l’impressione dell’eleganza sottile espressa nelle opere di Edward Hald, Simon Gate, Carl Hörvik e Gunnar Asplund.
È in tutto conveniente dunque che la mostra nella capitale scandinava, nelle stanze ufficialissime e austere del Nationalmuseum (fino al 28 agosto), ricorra sin dal titolo a quest’efficace definizione, preferendola al più generico rimando ai «felici anni Venti», per raccontare gli esiti di una stagione eccezionale, in percorsi colti e multidisciplinari che hanno il pregio di efficaci accostamenti e di accoppiate sorprendenti, secondo una limpida prospettiva storica ma con un occhio rivolto ai temi principe del dibattito contemporaneo (dalle donne alle minoranze, passando per la critica dei postcolonial studies).
Non a caso, l’esposizione si apre con un rinvio alla terribile epidemia d’influenza spagnola abbattutasi duramente sull’Europa e sulla Svezia in coda al primo conflitto mondiale. A ricordare quel tempo luttuoso, la teletta commovente di Hilding Linnqvist, Sjukhussal II, ispirata a un sintetico modernismo di stampo matissiano: ma da lì una festa mobile, rutilante e luminosa, che nulla ha da invidiare alle tenere notti di Francis e Zelda o alle bisbocce notturne di Montparnasse.
In un défilé interminabile di jazz boys issati su tacchi oscillanti, il lungo bocchino incollato alle dita, o nel coro di maschiette incerte tra un bob o un taglio alla garçonne; dentro agli esperimenti francofili di Siri Meyer o di Agda Holst, sospesi nei temi o nei modi fra una bohème di soggetti e una non meno libera sperimentazione formale; nei costumi da eschimesi sognati da Gösta Adrian-Nilsson per balletti meccanici o farse folkloriche, nel rispetto di un’ispirazione d’après Léger; nella pasta purissima e priva di bolle dei vasi graffiti senza scalfire i bordi, istoriati con idoli greci o con scenette alla moda, il negozio di cactus o la mappa delle costellazioni: il racconto descrive in questo modo il tragitto di una via alternativa alla modernità, lontana dal funzionalismo Bauhaus e prossima semmai agli arabeschi cocteauviani, che mentre disegnava sulla mappa cittadina templi come il cinema Skandia o la nuova Konserthuset, ritardava il trionfo del design organico con la scusa della tradizione.
Profeta di questa tendenza fu Carl Malmsten, cui si devono, fra l’altro, cabinet preziosi di mogano, cedro, betulla e jacaranda, ispirati a una disciplina Arts and Crafts nel trattamento sapiente di materiali esotici; fucina della corrente l’esposizione di Gothenburg per il trecentenario della città marina, vera e propria celebrazione del genio svedese sul 1923: «uno scrigno di cose belle e prodigiose», secondo la definizione tempestivamente consegnata da Axel L. Romdahl alla «Svenska Slöjdföreningens Tidskrift».
Suo funerale l’opposizione vieppiù feroce di Gregor Paulsson, che ancora negli anni sessanta, nelle vesti mai dismesse di critico militante, avrebbe celebrato con acredine la riuscita della Stockholmsutställningen del 1930, una selezione settaria ed esclusiva ispirata al più severo razionalismo, animata dal progetto progressista di rinnovamento della società industriale.
Arco brevissimo di un’epoca di raffinatezza, insomma: ma non ci si stava proprio allora lamentando, ad altre latitudini ma alla luce di ambizioni nient’affatto distinte, di come, in quel tempo fuggevole, le candele avessero preso a bruciare da entrambi i lati?

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