La scelta politica di abbandonare la filiera della scuola al Sud. E se non è voluta, gli effetti saranno comunque quelli di seppellire definitivamente ogni tentativo di assottigliare il divario tra studenti italiani. Tra meno asili e possibili dismissioni di istituti, potrebbe ulteriormente allargarsi il gap tra nord e sud che quest’anno ha raggiunto un livello che lo Svimez, nel suo rapporto annuale pubblicato ieri, ha definito «scioccante». In questo quadro, peggiore del previsto, secondo la Flc-Cgil qualsiasi progetto di regionalizzazione tra quelli paventati negli ultimi mesi non farebbe altro che aumentare ulteriormente gli squilibri e si renderebbe quindi necessario uno sciopero generale. «Se la proposta di autonomia differenziata dovesse coinvolgere anche il mondo della scuola, non c’è alcun dubbio che proporremo uno sciopero e attiveremo tutte le forme di mobilitazione», spiega il segretario generale della Flc-Cgil Francesco Sinopoli.

Ma andiamo con ordine. Il primo punto riguarda i dati diffusi dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) in un Focus su Piano asili nido e scuole dell’infanzia: nonostante la grave carenza di asili, più di 3.400 Comuni italiani non hanno partecipato ai bandi del Pnrr, che complessivamente mettono a disposizione degli enti locali 3,8 miliardi di euro per creare 264.480 nuovi posti tra asili nido e scuole dell’infanzia entro la fine del 2025. Rimangono ancora da assegnare 329 milioni e sarà difficile raggiungere l’obiettivo del Piano nei prossimi due anni. E poi, a complicare il quadro per il Sud c’è la Manovra. Secondo il testo del governo: «Le Regioni (…) provvedono autonomamente al dimensionamento della rete scolastica entro il 30 novembre di ogni anno».

Secondo alcuni osservatori sorgerebbero problemi se entro la scadenza non si dovesse trovare un accordo con le Regioni. Se la norma non dovesse mutare, in base alle prime stime potrebbero chiudere tra le 600 e le 700 scuole in un paio di anni, soprattutto nelle regioni meridionali. Questo perché senza accordi, il governo dovrebbe emanare entro il successivo 31 agosto un decreto di natura non regolamentare in cui decidere i contingenti dei dirigenti sulla base di alcuni coefficienti che, ragionevolmente, potrebbero portare al paradosso che regioni in sofferenza come Calabria, Sardegna o Campania dovrebbero chiudere molte scuole mentre altri territori, come l’Emilia Romagna, potrebbero risultare con un fabbisogno più alto di istituti.

Il tutto avviene in un contesto di divari preoccupanti tra nord e sud nella filiera dell’istruzione. Ieri l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, Svimez, ha confermato che l’offerta dei servizi per l’infanzia è estremamente frammentata sia nella dotazione di strutture che nella spesa pubblica corrente utilizzata dalle Amministrazioni locali. Nella scuola d’infanzia, la carenza d’offerta a sfavore del Mezzogiorno riguarda soprattutto gli orari di frequenza e il servizio mensa. Al sud l’orario prolungato riguarda solo l’4,8% dei bambini e il 79% dei bambini non beneficia di alcun servizio mensa. Circa il 66% degli allievi delle scuole primarie e il 57% delle secondarie meridionali non frequentano scuole dotate di una palestra.

In questo quadro la Cgil si dice «pronta a mobilitarsi». «Il problema è il disinvestimento complessivo che si fa sulla scuola a livello nazionale, ormai da dieci anni – spiega Sinopoli – La regionalizzazione è la cosa più sbagliata possibile, aumenterebbe solo le differenze che già esistono. Ci sono Regioni che pensano di risolvere i problemi della scuola cavandosela da soli e lasciando le Regioni più deboli in una situazione peggiore». Intanto i sindacati di base (Cobas, Unicobas, Usb, Cobas Sardegna e altri) ne hanno già proclamato uno per il 2 dicembre prossimo. Nella piattaforma rivendicativa anche il ritiro di ogni ipotesi di regionalizzazione della scuola.