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Sventare la bomba, salvare la coscienza: un Simenon anni Trenta

Sventare la bomba, salvare la coscienza: un Simenon anni TrentaRené Magritte, The Portrait,1935, New York, MoMA

Narrativa francese Il sospettato, Adelphi, romanzo del ’38, è un anarchico anti-violento, transfuga in Belgio: la sua impasse esistenziale in una provincia tutta odori e colori, tra il misero teatro e l’intimità domestica

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 24 marzo 2019

Il mite e intelligente Pierre Chave, il sospettato, è un personaggio un po’ distante dai protagonisti che Simenon ha l’abitudine di dipingere: il suo dramma è solo in parte esistenziale e psicologico. È un rovello morale – perché tocca nel profondo la coscienza –, ma ha anche vaste implicazioni socio-culturali. A dirla tutta, anzi, il dramma di Chave è in primo luogo di natura ideologica e politica. E non potrebbe essere altrimenti per un anarchico cólto e coerente che scrive opuscoli di riflessione politica e articoli su giornali libertari, si prodiga per educare giovani anarchici, ha un’ottima e fedele famiglia, ed è convinto oppositore della violenza, un antimilitarista e un disertore ricercato dalla polizia francese.
Le suspect, il romanzo scritto da Georges Simenon nel 1938, nel decennio in cui intraprende i «romans durs», pubblicato da noi nel 1953 come L’uomo sospetto, appare ora nella nuova traduzione di Marina Karam e con lieve variante nel titolo: Il sospettato (Adelphi «Biblioteca», pp. 140, € 18,00).
La vicenda è una quête affannosa condotta in totale solitudine: per scongiurare un attentato imminente, Chave cerca di raggiungere il compagno che dovrà esserne esecutore. Ha pochi appigli e pochissimo tempo; enorme rammarico e poco denaro perché in Belgio, dove vive da transfuga, lavora in una mediocre compagnia teatrale. Responsabile di questo sbocco cruento è proprio la cellula francese costituita dai suoi compagni storici, quasi non avessero appreso i suoi ideali o li avessero dimenticati col tempo e la distanza. O avessero permesso a nuovi sodali di calpestare l’originaria non violenza. Ad aggravare questo primo, profondissimo motivo di disperazione e di ripensamento, intellettuale ferita nell’amor proprio e tremendo innesco di dubbi, si aggiunge la prospettiva della strage che si va preparando, insostenibile nell’ideologia, perché le vittime più numerose dell’attentato, per com’è concepito, saranno gli operai, classe socialmente oppressa e sfruttata. Ma insostenibile anche nei suoi effetti immediati e materiali, nello spettacolo delle membra squarciate che Chave già immagina simile alle «catastrofi ferroviarie, o delle miniere in Belgio: corpi anneriti, a brandelli, carni dilaniate, imbrattate, sofferenti, occhi svuotati intorno», simile, sì, ma certo più raccapricciante perché intenzionale. E organizzato da chi vorrebbe migliorare e liberare il mondo, come gli anarchici, contro compagni dello stesso ceto sociale, ignari e inermi.
Se le convinzioni di Chave sono politicamente alte – la sua è la vita (la missione) di un pensatore che scrive nel suo studiolo mentre il bambino gioca sul tappeto e la moglie cucina e l’ascolta in piena condivisione –, e se alcuni dei suoi tratti sono invero un po’ romantici, il suo scontro con la realtà, poi, è coraggioso e privo di protezioni. La miseria in cui s’imbatte è concreta, percepibilissima, ha colori e odori. È grigia e infagottata come la barbona che ciondola sul lungosenna, stinta come il calzino che spunta dal letto dell’infima camera in cui si prepara l’azione, è accesa, smaltata e triste quanto «un’enorme battona, pitturata come una ceramica» all’ingresso di un albergo «pidocchioso». È acuta e riconoscibile dal sentore: «c’era un afrore di treno notturno e di dormitorio dell’Esercito della Salvezza, di caserma e di camera di ospedale, di prigione, di veglia funebre, di tutto ciò che è acre e molesto, con un odore di umanità troppo penetrante, un retrogusto di miseria che prendeva alla gola».
In questo romanzo dal ritmo serrato e denso di riflessioni come lampi, Simenon è eccellente scenografo. Perfetto il teatro di provincia dove lavora – attrezzista, suggeritore, direttore di palco, tuttofare, insomma, e all’occorrenza anche personaggio – il paziente Chave: un luogo senza gioia e senza mezzi, con angoli pieni di spifferi dove attendono i teatranti in cerca di ingaggio. Perfetta, sempre a Schaerbeek, la casetta in cui vive con la moglie: uno «spazio di intimità caldo e pulsante» con l’ansimare della stufa, l’odore dei ferri da stiro, del latte bruciato e della febbre del piccolo. Più che perfetti, trattandosi di Simenon, i bistrot in cui si pulisce tutto con lo stesso straccio e le locande con gli armadi foderati di carta fiorata, i panni stesi sulle chiatte, «l’atmosfera opprimente dell’ufficio dai tappeti rossi» al ministero.
Dall’interno di una trattoria, mentre le forchette battono «contro i piatti» e il «vino aspro» infiamma le guance, Chave assiste a un inseguimento che si snoda come in un film, davanti a un fondale nitidissimo e allegorico: una strada deserta, «un muro bianco con la scritta “Divieto di affissione” e, in alto, il sole». Dall’interno in ombra, allora, marciapiede, muro e scritta appaiono «come un palcoscenico sul quale era puntato il riflettore del sole».
Nel protagonista la tenacia supera lo sconforto: malgrado i pensieri contraddittorii, la stanchezza che deforma la visione, Chave non perde lucidità. I suoi sospetti sul rivale politico K., infiltrato dall’est, da un paese di «miseria incattivita», violento e forse responsabile del piano terroristico, assumono pian piano consistenza, mentre lui, sospettato e ricercato dalla polizia, diviene sospetto anche ai compagni che si credono traditi. La temperatura emotiva sale verso la fine del romanzo, quando la tensione narrativa cresce in proporzione al turbamento del protagonista, al rischio di un collasso nervoso perché si fa strada, in lui, «la sensazione che in tutta quella sporcizia naufragasse un po’ la sua stessa vita».
Impedire l’attentato alla fabbrica di aerei a Courbevoie è, per Chave, un imperativo morale e categorico. Se alcuni compagni lo ammirano come «un nuovo Lenin!», e altri come «un Savonarola», ciò dipende senz’altro dalla sua fermezza e dalla sua cultura – «parlava meglio di tutti gli altri e riusciva a tradurre in frasi incisive quello che loro pensavano confusamente» –, ma soprattutto deriva dal suo umanissimo idealismo, perché «soffre nel vedere che il mondo è fatto male e vorrebbe porvi rimedio».

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