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Svegliare la società e rimuovere le macerie del ventennio

La cappa La scissione di Rifondazione apre la diga della Seconda repubblica, l’Italia si normalizza, la società aderisce a un senso comune subalterno. Ma è da qui che occorre ripartire

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 21 agosto 2015

C’è vita a sinistra? Forse la questione andrebbe posta in questa forma, come una domanda non retorica. La risposta, se non si è in cerca di conforto, non è scontata. Dipende da che cosa si intende per sinistra e da dove si volge lo sguardo.

Perlopiù ci si guarda intorno per registrare le (micro)realtà in cui è attualmente frantumato il territorio della sinistra politica e della cosiddetta sinistra sociale, che è politica anch’essa perché movimenti e associazioni sono soggettività critiche dotate di cultura politica e orientate verso finalità politiche. In questa prospettiva è facile rispondere affermativamente.

L’arcipelago esiste. Si riduce, ma nonostante tutto persiste. In quest’ottica il problema sta nel riscattarlo dall’attuale dispersione battendo le resistenze (le insipienze) di sedicenti gruppi dirigenti gravati dai peggiori difetti del ceto politico: l’autoreferenzialità, il feticismo delle identità (per sovrappiù cristallizzate nella sottocultura delle formule ideologiche), il settarismo allevato da una concezione familistica dell’appartenenza.

Ma questa impostazione poteva essere adeguata in passato, fino alla metà degli anni Novanta, quando si poteva ancora sperare in un’evoluzione positiva del processo di scomposizione e regressione innescato dalla Bolognina. Poi la storia è cambiata. Il 1998, quando Rifondazione comunista cessa di essere una realtà dotata di senso, è una data cruciale in questa vicenda. Fino alla grande scissione che ne segna irreversibilmente la parabola, Rifondazione rappresenta un’opportunità per tutta la sinistra italiana. È un bene comune. Malgrado l’immaturità della dirigenza, emersa drammaticamente già nel congresso fondativo dell’Eur (1991), costituisce ancora, potenzialmente, il luogo di convergenza, accumulazione e riorganizzazione delle forze critiche capaci di resistere alle sirene dell’omologazione subalterna, di sottrarsi all’attrazione trasformistica del social-liberismo che informa di sé la cosiddetta «sinistra di governo».

Col 1998 questa storia si chiude. La grande scissione non segna soltanto l’avvio della lenta agonia di Rifondazione comunista. Sancisce anche, sino a prova contraria, l’incapacità di ricostruire qui e ora – in Italia, nel nuovo secolo – un partito comunista o socialista di massa, in grado di impedire lo spostamento del blocco storico del vecchio Pci nel quadro delle forze moderate, vocate all’amministrazione sintonica dell’esistente, e di contrastare la rivoluzione passiva neoliberale. Da quel momento la storia italiana entra in una fase nuova, di cui Renzi – come già il suo maestro Berlusconi – è soltanto un paradigma di peculiare volgarità. Da allora, per la prima volta nella storia repubblicana, lo scenario politico italiano si caratterizza per la sostanziale assenza di un’opposizione.
La prima Repubblica ha vissuto della dialettica fondamentale tra la sinistra a dominante comunista e il variegato mondo egemonizzato dalla Dc. Non si trattava soltanto di politica in senso stretto (partiti e istituzioni), ma di un dato sociale, antropologico e culturale. Ciò spiega perché, con tutti i suoi limiti, il Pci abbia contribuito stabilmente (anche suo malgrado) alla fioritura di culture e soggettività critiche che hanno promosso lo sviluppo sociale e civile del paese, prima e dopo il ’69 operaio. È proprio questa stratificata polarità che la Bolognina ha cancellato, spianando la strada alla vandea berlusconiana.

In pochi anni l’Italia è stata normalizzata. Ancora una volta, non soltanto sul piano strettamente politico (l’intero spettro delle forze parlamentari fa ormai riferimento acriticamente all’esistente, e sono via via venute meno anche le differenze di accento tra la destra e il centro «democratico»), ma anche, in primo luogo, sul terreno sociale. Il paese è stato scaraventato in una palude fatta di indifferentismo e di cinismo, di irresponsabilità e di conformismo. Non dovrebbe sorprendere che la sfiducia nei confronti della classe dirigente sia stata largamente capitalizzata da una figura come Grillo, portabandiera del risentimento qualunquistico. Né che, in assenza di alternative credibili, il disagio moltiplichi i ranghi dell’astensionismo.

In questa situazione si può essere certi che ci sia «vita a sinistra»? Che in Italia esista una sinistra come fatto politico, in grado di incidere sulla realtà? Forse la domanda che ci si dovrebbe porre è piuttosto come la sinistra potrebbe rinascere. Bisognerebbe allora riorientare lo sguardo, non guardare a noi stessi (a quanti si interessano di politica per vocazione o per abitudine) ma, senza intenti consolatori, al paese. Per cercare di capire com’è cambiato nel corpo e nell’anima in vent’anni di berlusconismo, di neoliberismo e di desertificazione «intellettuale e morale» della sinistra.

Difficilmente una ricognizione del genere – tutt’altro che agevole, tale da imporre la revisione della tradizionale strumentazione analitica e pratica – darebbe risultati confortanti. Il malessere diffuso non si traduce spontaneamente in atteggiamenti critici perché la macchina mediatica funziona a pieno regime nel consolidamento del senso comune subalterno mentre l’assenza di una sinistra capace di direzione politica di massa sortisce nel lungo periodo effetti rovinosi. Ma è da qui che occorre partire, tenendo a mente che la ricostituzione di una sinistra capace non soltanto di decifrare la realtà ma anche di incidere su di essa è un processo sociale di lunga lena.

Non si tratta di invocare eventi salvifici né di imboccare scorciatoie organizzative, come si è puntualmente fatto negli ultimi quindici o vent’anni. Si impone, al contrario, un lavoro molecolare, oscuro e di straordinaria difficoltà proprio perché occorre ricostruire ex novo un sistema di relazioni egemoniche, il che implica nientemeno che l’elaborazione e il radicamento di un senso comune critico andato disperso. È un’impresa che parte per definizione in condizioni avverse e nella quale l’unica certezza è che non esistono formule predefinite.

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