La maturità l’aveva già conseguita a pieni voti nel lontano 1989, dopo diciotto anni di attività discografica coronata da quel Nick Of Time dopo il quale avrebbe fatto incetta di Grammy. Per Bonnie Raitt, baronessa del blues classe 1949, era stato l’inizio di una seconda fase, con un successo di critica e di vendite che finalmente premiava l’integrità artistica della songwriter. E il suo attivismo politico, una costante dai giorni del Vietnam a quelli di Trump. Un quindicennio di grandi dischi, poi uno iato, dopo Souls Alike (2005), per una serie di lutti che avevano portato a un lungo silenzio, preludio a una terza stagione — avviata nel 2012 da Slipstream — che è una perfetta sintesi delle prime due. Ora, sei anni dopo Dig In Deep, la baronessa torna a perlustrare i suoi feudi, attorniata da vecchi e nuovi scudieri: ai veterani Ricky Fataar (batteria), James Hutchinson (basso) e George Marinelli (chitarra) si affiancano il tastierista canadese Glenn Patscha e il chitarrista Kenny Greenberg, da Nashville. Nessuna smania di sorprendere, né ansia di cementare improbabili alleanze con la nuova aristocrazia pop. La cifra stilistica di Just Like That, diciottesimo album in studio della Raitt, rispecchia quella dei due precedenti, con la stratificazione di rock, blues e folk a creare una patina leggera da cui traspare tutta la grinta di Bonnie.

Nessuna smania di sorprendere, né ansia di cementare improbabili alleanze con la nuova aristocrazia pop.

UNA VOCE, LA SUA, «not particularly beautiful but textured», ebbe a dire il critico Robert Christgau. Sussurri e grida, con il controcanto di Brownie, la Fender del ‘65 che accompagna l’artista americana da decenni, aggiungendo alla sua originaria grana rurale un sound sempre più urbano. Come quello che apre l’album con Made Up Mind dei fratelli Landreth, a conferma di un’altra ricetta tipica della Raitt, l’attento dosaggio di scrittura e rilettura: tra le cover, qui spiccano Something’s Got A Hold Of My Heart di Al Anderson e Love So Strong di Toots Hibbert, morto di covid due anni fa. Alle altre vittime della pandemia Bonnie dedica di suo pugno Livin’ For The Ones, per poi rinverdire il suo canzoniere folk con due ballad, Just Like That e Down The Hall (sì, la citazione di Blackbird sull’acustica è palese). Le influenze di Bob Dylan, Jackson Browne, Paul Brady e John Prine sono ormai assorbite nel linguaggio personale di Bonnie, fedele a se stessa, alla sua penna e alla sua voce, «not particularly beautiful but textured».