Markus Selg e Susanne Kennedy, foto di Bea Borgers

Se una vita è frammentata nella sua continua documentazione, possiamo ancora considerarla un’unità? Quale tipo di presenza acquisiamo nel mondo tecnologico? Sono solo alcune delle domande sollevate da Angela (a strange loop), lo spettacolo di Susanne Kennedy e Markus Selg in scena ancora stasera al Teatro Argentina nell’ambito di Romaeuropa festival. La collaborazione tra la regista e drammaturga tedesca, ormai affermata in patria, e l’artista visivo Selg si fonda sulla «creazione di mondi», e lo scorso anno era già passato in Italia il loro progetto di realtà virtuale I Am (Vr), dove i due avevano sperimentato le possibilità di un teatro immersivo. Al centro di Angela c’è però una donna in carne e ossa (Ixchel Mendoza Hernández), un’influencer alle prese con la malattia e le relazioni, ma proiettate in un contesto ultra-contemporaneo, mutato dalla tecnologia. E proprio su quest’ultima si è concentrata la conversazione con Susanne Kennedy.

Il teatro potrebbe sembrare distante dalle innovazioni tecnologiche, fondandosi sulla presenza umana. Su quale piano avviene questo incontro?

Il teatro, dal mio punto di vista, è una tecnologia. È un mezzo per esplorare ciò che accade intorno a noi, allo stesso modo del video e del suono, e persino dell’intelligenza artificiale. Io e il mio gruppo usiamo la tecnologia intesa come un mezzo di espressione, come gli esseri umano hanno sempre fatto. Guardando alle nostre vite di tutti i giorni, è evidente che utilizziamo mezzi tecnologici continuamente, e perché questo non dovrebbe avvenire a teatro? A volte è come se le arti della scena venissero considerate su un altro livello, credo invece che sia normale che i cambiamenti si riflettano sul palco. Inoltre, credo che la tecnologia possa aiutarci a rispondere a domande come «perché sono qui? Cos’è la realtà?».

Le voci dei suoi attori sul palco sono pre-registrate, quali sono le conseguenze di questa disgiunzione?

Sì, le voci sono pre-registrate in studio, un ambiente molto diverso dal palcoscenico. Hanno un suono differente e questo crea un effetto particolare quando le ascoltiamo nello spettacolo. Gli attori recitano in playback: un tipo di lavoro specifico e molto complesso affinché risulti convincente. Dal mio punto di vista, si crea così un divario interessante tra il corpo e la voce in cui si aprono una serie di possibilità che mettono in dubbio la percezione e le aspettative. Ciò che faccio col mio lavoro in fondo è entrare in relazione con ciò che diamo per scontato, anche a teatro, per poi metterlo da parte. Ma non in una maniera razionale, piuttosto con una temperatura emotiva che porta lo spettatore ad avere dubbi su ciò che sta vedendo, e magari a non essere più così sicuro del proprio modo di muoversi nel mondo. Provo a mettere l’enfasi sulle piccole situazioni e ad approfondirle finché non si disintegrano. In gioco c’è la realtà in un senso ontologico e metafisico.

La separazione tra corporeità e logos appare anche nella malattia di Angela. Potremmo pensare al corpo come a una resistenza, proprio perché ha una fine?

Io non penso che dobbiamo resistere alla tecnologia, penso che possiamo utilizzarla, come utilizziamo i costumi, le luci…alcuni dei video che proiettiamo sono stati creati con l’intelligenza artificiale, certo bisogna conoscerla, ma io credo sia importante per non farsi «usare» da ciò che usiamo. Angela è un’influencer che usa la tecnologia per raccontare la sua vita, ma non mi interessa criticare tutto ciò. Mi attraeva di più una sorta di «viaggio dell’eroe o eroina»: affrontare le parti oscure della propria esistenza in maniera creativa, anche se dolorosa, e la tecnologia si inserisce in questo processo.

L’idea di scenografia viene però rivoluzionata dalle innovazioni che lei applica, come ci ha lavorato?

La stanza di Angela è proiettata su uno schermo, ma sembra vera, non tutti lo notano e sono molto stupiti quando l’ambiente cambia, assumendo su di sé l’umore e la fantasia di coloro che lo abitano. Un’altra cosa che la tecnologia può fare è meravigliarci e mostrare i nostri limiti, se la utilizziamo con saggezza e non come una «trovata». Il fatto che con il video si possa andare ovunque, e che non c’è bisogno di cambiare sfondi e così via, non significa che ci sia meno lavoro da fare. Questo è un campo dove lavora più Marcus Silk, vede cosa c’è sul palco durante le prove e crea i video come se fossero una reazione, creando un’interazione tra i due piani.