Susanna Tamaro vuole salvare i poveri ciclisti
A un certo punto di questo mio intervento citerò una data: 2 febbraio 1927. Ma parto da tempi più recenti, cioè dal 3 marzo di quest’anno: sul Corriere della Sera […]
A un certo punto di questo mio intervento citerò una data: 2 febbraio 1927. Ma parto da tempi più recenti, cioè dal 3 marzo di quest’anno: sul Corriere della Sera […]
A un certo punto di questo mio intervento citerò una data: 2 febbraio 1927. Ma parto da tempi più recenti, cioè dal 3 marzo di quest’anno: sul Corriere della Sera appare un intervento di Susanna Tamaro che parla di sicurezza in bici prendendo spunto dalla tragica fine del giovanissimo Matteo Prodi, ucciso in bicicletta a Bologna da un automobilista che poi si scoprì essere uno storico collaboratore del suo prozio Romano e di suo nonno Vittorio. Quest’ultimo è un dato inessenziale ma serve a far capire l’interconnessione di noi tutti in strada.
Torniamo alla cara Susanna, che tra l’altro coinvolsi con un’intervista nel 2012 per contribuire a lanciare la campagna #salvaiciclisti, che il 28 aprile di quell’anno portò a Roma 50.000 persone per urlare che questo disgraziato paese doveva cambiare modo di stare in strada.
Nel suo intervento Tamaro inanella una serie di banalità forse non sorprendenti per i suoi detrattori, e io non lo sono, ma comunque traumatiche per chi come noi cicloattivisti prova a far capire a tutti che la demotorizzazione d’Italia è la via da intraprendere per un ragionevole modo di circolare, mentre invece il corpaccione sociale di cui Susanna è ottima interprete letteraria continua ad addossare alla semplice esistenza della persona in bici la sua volontà di farsi male in situazioni che allo stesso corpaccione appaiono immanenti e immutabili: il dominio dell’automobile. Eppure era partita abbastanza bene, sostanzialmente con un «anche io sono stata investita. Continuo a pedalare, ma ogni volta che un’auto mi supera vengo colta dalla tachicardia».
Il sollievo dura poco: sintetizzando, Tamaro sostiene che in questo stato di cose sia «una follia» non imporre a chi pedala casco, luci, abiti riflettenti, fino all’ultima perla in chiusura: «Come mai, mi chiedo, ora che siamo capaci di andare su Marte, che la tecnologia sembra in grado di risolvere ogni problema che ci affligge – e anche quelli che non ci affliggono – nessuno sia stato ancora in grado di inventare un gilet airbag capace di proteggere l’umile e silenziosa vita dei ciclisti?». Una chiusura forse isterica ma ammantata di quella che a molti può sembrare ragionevolezza.
Nel 1954 un giornale inglese (ri)pubblicò una vignetta, stimolato dall’intervento, incredibilmente analogo a quello di Tamaro, del reverendo Rawlinson, vescovo di Derry, che alla locale Conferenza episcopale dell’ottobre ’53 chiese di dotare i pedoni di luci per aumentare la sicurezza del traffico automobilistico. Nella vignetta si vede un uomo girare con due lampade in mano e una appesa dietro e agganciata a un cartello triangolare di «Attenzione!», casco, e sul casco una tromba ad aria.
Quella vignetta era stata pubblicata in origine sul Punch, giornale satirico, del 2 febbraio 1927.
Quasi un secolo è passato senza che la banalità della rimozione collettiva del pericolo in strada, ovvero la vorace circolazione automobilistica, sia stata sgretolata.
Susanna cara, te lo dico davvero con affetto: hai detto una sequela di fesserie irricevibili e tra l’altro ti sei prestata inconsapevolmente al solito marketing automobilistico, lo stesso che ci bombarda di pubblicità sui media e ci bombarda poi davvero in strada. Lo stesso che prova da oltre un secolo ad ammazzarci non solo fisicamente ma anche come portatori di una cultura dello spostamento leggero che per millenni è stata normale e oggi, da poco più di un secolo, sembra essere un fastidio da seppellire sotto chili di aggeggi scemi.
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