Susan Harbage Page, un puzzle di oggetti per raccontare l’identità dei «clandestini»
Fotografia «U.S. Mexico Border Project» di Susan Harbage Page
Fotografia «U.S. Mexico Border Project» di Susan Harbage Page
La più recente evoluzione del progetto U.S.-Mexico Border Project che Susan Harbage Page (Greenville, Ohio 1959) porta avanti dal 2007, fotografando il limbo che delimita il Muro della Vergogna tra Stati Uniti e Messico è Passport, il suo passaporto dorato. Stavolta l’attenzione dell’artista è indirizzata verso un oggetto che le appartiene, ma che è in stretta relazione con quelli dei migranti, abbandonati o persi durante la fuga, soprattutto in Texas, lungo il Rio Grande fino a Brownsville. È il tratto finale degli oltre tremila km di barriera metallica costruita per impedire agli immigrati clandestini di entrare nella «nuova terra promessa» che da Tijuana/San Diego attraversa aree urbane e desertiche della California, dell’Arizona, del New Mexico per terminare in Texas.
Harbage Page è tornata negli anni a fotografare questa zona di confine camminando, andando in canoa e in bicicletta, puntando l’obiettivo sugli oggetti abbandonati prima di raccoglierli, portarli con sé e catalogarli. Un’azione con cui ha dato vita a un «anti-archivio» di migliaia di pezzi, trasformando un reportage di matrice politico-sociale in un intervento estetico, archeologico e archivistico che non tradisce il suo intento di denuncia. Da questo lavoro che è stato esposto in diversi musei americani è nata anche l’opera Gingerbread Borderland: Happy Holidays 2018 con la riproduzione in pan di zenzero (quello dei biscotti natalizi) di oggetti che ridefiniscono quello stesso spazio di confine in un’«offerta» di acquisizione di consapevolezza.
Dalla quotidianità arriva un pettine, un portafoglio, un reggiseno, una camicia, un paio di occhiali senza stanghette, un soldatino di plastica, una ciabatta, un cellulare, un certificato di nascita… testimoni di un’emigrazione silenziosa che vede protagonisti donne, uomini e bambini. Nessuno vuole vedere. Storie che si ripetono al di là del tempo e della sfera geografica. Quegli oggetti custodiscono frammenti di vissuto che trasudano paure e incertezze, violenza, dramma e anche coraggio. «Mostrare quegli oggetti come reliquie ha più potere, perché raccontano storie di cui non si sa l’inizio, né la fine», afferma l’artista che considera il suo lavoro alla stregua di un dovere.
Soprattutto da quando Donald Trump, nel 2016, ha continuato a costruire la barriera di separazione con il Messico (iniziata negli anni ’90 durante la presidenza di George H. W. Bush), inasprendo le politiche dell’immigrazione anche attraverso il travel ban con cui viene negato l’ingresso negli Usa ai cittadini provenienti da paesi a maggioranza musulmana, Susan Harbage Page si è posta alcune domande sul significato stesso di frontiera e sul privilegio di possedere un passaporto americano (e di contro sullo svantaggio di non averlo), trasformando il suo passaporto in un oggetto visibilmente prezioso, attraverso l’impiego della foglia oro che ne cancella le pagine, una ad una. «Cosa significa appartenere? – si chiede l’artista – Perché le merci, la cultura, la tecnologia possono attraversare i confini senza soluzione di continuità e non gli esseri umani? Cosa significa avere un passaporto? Chi decide se ne hai uno? Quale privilegio mi assicura? Cosa significa nascondersi dietro la ricchezza? In che modo questo privilegio oscura e rivela chi sono?».
L’uso dell’oro zecchino in foglia rimanda alla preziosità e alla sacralità degli antichi codici miniati, giocando implicitamente anche sulla natura emblematica del concetto di fortuna e denaro a cui allude la parola oro. Annullare il suo passaporto di cittadina statunitense – donna bianca, artista e docente universitaria – è per Susan Harbage Page un gesto dichiaratamente provocatorio che, come sottolinea Deborah Willis curatrice della mostra collettiva Migrations and Meaning(s) in Art (2020) di cui ha fatto parte anche Passport, è un modo per ribaltarne il significato, indirizzando il discorso verso il senso di dislocamento, fragilità, insicurezza ed esclusione: sentimenti condivisi, in particolare, da chi si trova nella condizione di clandestinità, senza documenti e con un’identità tutta da ridefinire.
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