Surrealismo, palingenesi con dominante femminile
Dorothea Tanning, "Il gioco magico dei fiori", 1941, South Dakota, collezione privata © The Estate of Dorothea Tanning
Alias Domenica

Surrealismo, palingenesi con dominante femminile

A Venezia, Fondazione Guggenheim, "Surrealismo e magia", a cura di Grazina Subelytè e Daniel Zemani In che modo la fluidificazione dell’immaginario propugnata da Breton realizzò l’affermarsi di un ideale androgino, di un’unità cosmica. Soprattutto tramite le artiste: Leonor Fini, Dorothea Tanning, Leonora Carrington, Remedios Varo
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 31 luglio 2022

Prima foto di gruppo. Parigi, settembre 1922: nel monolocale di André Breton si ritrova un gruppo di amici tra i quali i poeti René Crevel, Robert Desnos e Max Morise. Sono riuniti per un cerimoniale da seduta spiritica, per capire quanto le esperienze di trance inducano un incremento di energie creative. Al gruppo in quegli stessi mesi si era aggregato anche Max Ernst, appena arrivato a Parigi reduce dall’avventura dadaista a Colonia. Per presentarsi Ernst realizza un ritratto di gruppo di grandi dimensioni, dove sono presenti tutti i protagonisti di quella seduta: c’è Crevel che suona un organo invisibile e c’è naturalmente Breton, che indossa una cappa cremisi, il colore associato agli studi ermetici e alla figura del re alchemico. Au rendez-vous des amis è il titolo dell’opera che raduna questi proto-surrealisti, due anni prima del Manifesto di Breton. Intanto la breccia era stata aperta e occultismo, parapsicologia, alchimia e spiritismo avevano messo un piede nel campo dell’arte.

Seconda foto di gruppo. Marsiglia, inverno 1940. Nella villa Air-Bel si è radunato un folto gruppo di surrealisti scappati dalla Parigi occupata dai nazisti e in attesa dei visti per lasciare l’Europa. Tra loro c’è naturalmente Breton, ma ci sono anche Max Ernst, Victor Brauner e André Masson. Insieme, nelle lunghe pause, mettono a punto una nuova serie di carte che chiamano Jeu de Marseille. Re, regina e fante sono sostituiti dal Mago, dalla Sirena e dal Genio. Gli amici surrealisti inventano anche quattro semi del tutto inediti per esprimere la loro visione del mondo. C’è il Mago dell’amore, disegnato da Masson e il Mago della Conoscenza, disegnato da Breton, diventato un grande conoscitore dei Tarocchi ed esperto di cartomanzia. Anche sua moglie Jacqueline Lamba partecipa al gioco, disegnando la carta dedicata alla rivoluzione con la ruota come simbolo, e un’altra versione del Mago dell’amore.

La terza foto di gruppo è datata 1947: il 7 luglio, dopo la parentesi della guerra e l’esilio americano, si inaugura alla Galleria Maeght di Parigi una mostra internazionale del Surrealismo, con opere di oltre 100 artisti di 25 paesi diversi: la dimensione internazionale ormai è nei fatti. Per Breton è chiaro l’obiettivo: la mostra deve coincidere con un rito di iniziazione per chi la visita, nella convinzione che il credo surrealista abbia una funzione fondamentale nei processi di rinnovamento sociale e culturale dopo i disastri del nazismo e della guerra. L’allestimento è affidato a Frederick Kiesler, architetto di origine rumena, che era stato scoperto da Peggy Guggenheim per la storica rassegna Art of the Century. «Noi eredi del caos dobbiamo essere architetti di una nuova unità. L’antica magia deve essere ricreata», proclama Kiesler, che studia ambienti dalle forme organiche, come grembi o uova, e percorsi simili a labirinti in cui perdersi per ritrovarsi.

Tra le opere esposte a Parigi ce n’era una molto emblematica: era firmata da Maria Martins, donna, non europea, ma brasiliana e di cultura indigena. Il soggetto inoltre introduceva in modo dirompente uno dei temi centrali della visione surrealista: il superamento del dualismo maschile-femminile e l’affermazione di un ideale androgino, simbolo di una possibile unità cosmica. L’impossible III, questo il titolo dell’opera di Martins, è un bronzo, oggi nelle collezioni del MoMA e arrivato a Venezia alla Fondazione Guggenheim in occasione della mostra dedicata a Surrealismo e magia (fino al 26 settembre, a cura di Grazina Subelytè e Daniel Zemani).

Paul Delvaux , “Il richiamo della notte”, 1938, Edimburgo, National Galleries of Scotland © Paul Delvaux Foundation

È una mostra affascinante che documenta quell’ansia palingenetica propria del movimento avviato da Breton. Da una foto di gruppo all’altra si assiste infatti al consolidarsi della coscienza rispetto alla funzione sociale e storica che i surrealisti attribuivano al proprio lavoro artistico. Il movimento, pur nella sua dimensione elitaria, puntava a mettere in atto dei processi di liberazione e di fluidificazione dell’immaginario destinati a prolungarsi nel tempo e ad allargarsi in visioni collettive. Lo testimonia il percorso della Biennale 2022 curata da Cecilia Alemanni che non a caso deve il suo titolo, Il latte dei sogni, a un libro di Leonora Carrington, surrealista, per un periodo compagna di Max Ernst e tra i protagonisti della mostra alla Collezione Guggenheim.

Carrington è protagonista con pieni titoli, sia carismatici che intellettuali. Una sua piccola, preziosa opera in mostra, datata 1939, attesta un rovesciamento di leadership nella relazione di coppia: in un orizzonte di ghiaccio Max Ernst, allora suo compagno, cammina vestito di piume rosse, con calze eccentriche a strisce gialle e blu. Ha in mano una lanterna a forma di uovo in cui è custodito un cavallo bianco in miniatura, simbolo della dea celtica Epona, a cui Carrington spesso ricorre come a una sorta di alter ego artistico. Ernst veste i panni dell’eremita dei Tarocchi, l’uomo alla ricerca di conoscenza esoterica, e la lanterna-Carrington gli fa luce.

Nel percorso della mostra, l’avvio è segnato dai riflessi del disastro storico che stava travolgendo l’Europa. Un capolavoro come L’Europa dopo la pioggia II di Max Ernst ha un sapore epocale; attraverso il drammatico sfilacciamento post atomico del paesaggio documenta il precipitare di una civiltà. Nello stesso tempo, sopra quel panorama di un mondo inselvatichito si accende l’azzurro di una nuova alba. Nei surrealisti prevale infatti sempre la propensione all’ottimismo come certezza di saper ridisegnare le coordinate del mondo; la magia assume la funzione di forza emancipatrice, poiché ritenuta in grado di offrire un’alternativa al fallimento della ragione e del razionalismo. Magia e occulto sono vissuti dunque come elementi chiave di un rinnovamento sociale e culturale, che permettesse di andare oltre i disastri del Novecento. Nel vocabolario surrealista ricorrono altre parole simbolo di questa ansia di trasformazione. Ad esempio «ibrido», come superamento dei dualismi, sia nei termini di specie che di genere. Paul Delvaux, alla fine degli anni trenta, con L’aurora, 1937, immagina una rinascita del mondo popolato da donne che incorporano anche la natura vegetale. Dorothea Tanning, una delle presenze più forti nel percorso della mostra (un capolavoro il suo La camera degli ospiti, 1950), radicalizza quell’intuizione con Il gioco magico dei fiori, opera del 1941, dove la protagonista si cuce addosso una pelle di petali.

La donna è sempre al cuore di questi processi di metamorfosi, in quanto sul corpo femminile si rendono possibili gli innesti in direzione di un mondo rinnovato. Inoltre la donna è chiamata ad abbattere i confini dei sessi e quindi a superare la visione dualistica del mondo, in forza della sua energia che non è ordinatrice ma caotica e potente. Soprattutto la donna in quanto artista occupa uno spazio e un ruolo trainante del tutto inedito rispetto a tutti gli altri movimenti d’avanguardia. Così il percorso della mostra che si era aperto nel segno della visionarietà tutta maschile in particolare di André Masson, di Sebastian Matta, di Viktor Brauner, dello stesso Max Ernst e del sorprendente Wolfgang Paalen, approda invece in sezioni compattamente femminili, egemonizzate dalle figure di Tanning, di Leonor Fini, di Carrington e di Remedios Varo.

Proprio quest’ultima conclude l’arco cronologico della mostra con Donna che esce dallo psicanalista (1960), dove sembra ironizzare anche sui riti dei compagni d’avventura. Sulla porta da cui la protagonista è uscita si legge la sigla «Dr. F. J. A.», cioè Freud, Jung, Adler. Lei, creatura ibrida e fatata, con un vestito verde-bosco e capelli che disegnano corna spiritate, tiene per la barba una testina di maschio per deporla in un pozzo circolare: è lei che padroneggia gli orizzonti della nuova autocoscienza.

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