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Surrealismo, in Italia un’instabile fortuna, con intriganti episodi

Leonor Fini, «Femme assise sur un homme nu», 1942Leonor Fini, «Femme assise sur un homme nu», 1942 – Leonor Fini, by SIAE 2024

A Mamiano (Parma), Fondazione Magnani Rocca «Il surrealismo e l'Italia»: Fini e Clerici all’Obelisco. Nuova figurazione italiana fra Carluccio e Crispolti

Pubblicato circa 3 ore faEdizione del 20 ottobre 2024
Claudio ZambianchiMAMIANO DI TRAVERSETOLO (PR)

Chi voglia farsi un’idea della forma assunta dai rapporti fra l’Italia e il Surrealismo può riandare con la mente alla Morte di Sardanapalo di Eugène Delacroix: un vuoto al centro, attorno al quale si affollano, in disordine, concubine, cavalli e carnefici.

Allo stesso modo, quando negli anni venti e trenta, a Parigi, il Surrealismo faceva cambiar pelle a tutte le arti attraverso pratiche nuove, basate sull’automatismo psichico, e le conduceva a nuovi orizzonti del meraviglioso, la cultura dell’Italia fascista ignorava il movimento. Dal 1924 (anno del primo manifesto di André Breton) alla fine della Seconda Guerra Mondiale, giungono nel nostro Paese poche notizie sul Surrealismo, frammentarie e rapsodiche; e soprattutto depurate dagli aspetti profanatori legati agli esperimenti di un movimento così pieno, diceva Ardengo Soffici (1940), di «bolscevichi» ed «ebrei».

Un vuoto centrale, quindi, attorno al quale tuttavia, prima e dopo, si affollano vicende interessanti, a partire dai primordi del movimento, quando Breton attribuisce alla metafisica di Giorgio de Chirico un’importanza decisiva nell’ispirargli l’idea di un bello fondato sullo spiazzamento e l’inquietudine. Lo stesso Breton, però, sempre pronto a distribuire patenti di ortodossia surrealista, nelle pagine iniziali de Le Surréalisme et la peinture (1928) condanna senza appello il De Chirico degli anni venti. Dal canto suo Alberto Savinio, che aveva fiancheggiato il movimento negli anni venti e trenta, nel 1945 prende nettamente le distanze: volendo «dare forma all’informe, e coscienza all’incosciente» il suo lavoro – sostiene – è agli antipodi del Surrealismo.

Il dopoguerra segna un risveglio dell’interesse italiano per il movimento, malgrado alcuni dei nostri massimi storici dell’arte (Longhi, Venturi, Argan) lo trovassero indigesto. Negli anni cinquanta i Nucleari da un lato e la figurazione fantastica dall’altro intuiscono le potenzialità legate rispettivamente al gesto automatico e alla dimensione visionaria del Surrealismo, e si intensificano i rapporti diretti (Breton muore nel 1966) e, più spesso, indiretti tra gli artisti italiani, ad esempio Enrico Baj, e il Surrealismo.

Nei primi anni sessanta, inoltre, dopo l’esaurirsi dell’esperienza informale, il riferimento al Surrealismo e all’arte dei fratelli De Chirico consente a critici come Luigi Carluccio (ad esempio nella mostra Le Muse Inquietanti ) o Enrico Crispolti (nelle varie edizioni di Alternative attuali) di rinvenire in esso una radice della nuova figurazione italiana, che riapriva l’arte all’espressione visiva delle fantasie inconsce. Le vicende della relazione fra il Surrealismo e l’arte del nostro Paese sono quindi polimorfe e instabili.

Provano a tenerle assieme in un racconto unitario due bravi studiosi del movimento, Alice Ensabella e Alessandro Nigro, che curano la mostra Il Surrealismo e l’Italia accompagnati da Stefano Roffi, direttore della Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, dove l’esposizione è visitabile fino al 15 dicembre (catalogo Dario Cimorelli). La prima parte è dedicata alle opere della fase eroica del Surrealismo conservate in territorio italiano (di Ernst, Tanguy, Magritte…): non solo quelle della collezione di Peggy Guggenheim, ma anche altre provenienti, ad esempio, dalle raccolte Lucci e Passaré.

Via via che il percorso si sgrana, si comprende come, nei vent’anni o poco più seguiti alla fine della guerra, la recezione del Surrealismo in Italia sia legata a nodi specifici nei quali il lavoro delle gallerie e l’interesse dei collezionisti assumono un ruolo centrale: uno per tutti, l’atmosfera surrealistizzante che si respira a Roma intorno alla Galleria dell’Obelisco, grazie alla presenza di pittori visionari e neoromantici italiani e stranieri, come Leonor Fini, Eugène Berman, Pavel Tchelitchew, Stanislao Lepri o Fabrizio Clerici.

Esito delle ricerche curatoriali è una mostra sofisticata e complessa, che presenta anche singole opere di qualità straordinaria (per esempio l’edizione dei Calligrammes di Apollinaire illustrati da De Chirico nel 1930), ma vive soprattutto del tentativo di catturare i fili nascosti nella trama della difficile fortuna italiana del Surrealismo.

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