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Super competizione, un piano inclinato

Nuova Finanza Pubblica

Nuova finanza pubblica La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 10 agosto 2024

Cosa sta accadendo all’economia globale? Deglobalizzazione selettiva, ritorno della geopolitica e della guerra per blocchi, indebolimento del dollaro, a cui negli ultimi giorni si sono aggiunti nuovi tonfi borsistici. La Cina rallenta, la Russia non va in crisi, la Germania forse sì. Utilizziamo quest’ultima come angolo visuale per poi arrivare all’Italia.

La crisi, come ha recentemente sottolineato Carlo Bastasin, è frutto di «uno shock strutturale» antecedente alla pandemia. Come sempre le cause sono molteplici, ma ruotano principalmente attorno a uno spostamento dei settori di punta del capitalismo globale, sempre più centrati sull’high tech piuttosto che sull’industria tradizionale, in cui Berlino era campione. A ciò si aggiunge un aumento del tasso di risparmio che non si traduce in investimenti a causa di un complessivo clima di incertezza.

Per tornare a fare profitti una parte dell’industria teutonica si è spostata verso il farmaceutico, segmento mezzano e in crescita. Salvo scoprire che produce meno indotto e servizi, cioè minore ricchezza diffusa. Insomma parrebbe che la Germania fatichi a innovare come gli Stati uniti e che paghi il prezzo del ritorno della geopolitica oltre che un calo della domanda proveniente da Pechino. Quest’ultimo calo, però, potrebbe essere il frutto di un rallentamento dell’Impero celeste, come di un aumento della specializzazione del suo apparato produttivo. La Cina non solo costruisce relazioni economiche con una parte sempre più significativa del pianeta, ma aumenta il contenuto tecnologico dei suoi prodotti, sfidando per qualità dei prodotti l’Occidente sempre più in campo aperto. Ricordate il caso Hawuei negli Usa?

La stessa domanda interna all’Unione europea, che rappresenta lo sbocco di circa la metà delle esportazioni tedesche, non brilla per crescita, con tassi dello zerovirgola. Invece negli Stati uniti, che sono tornati a crescere inaspettatamente (e troppo spesso vengono dati per morti!), ora arrivano le crisi borsistiche, fra le cui cause viene annoverata proprio la paura di un rallentamento dell’economia a stelle e strisce. Va detto che i risultati positivi di Washington sono anche il frutto del sostegno di un indebitamento pubblico crescente (122% del Pil) e di un dollaro che resta la prima moneta d’interscambio globale.

Cioè due fattori che favoriscono un’economia nazionale costantemente in disavanzo che nessun altro può permettersi. Insomma le spiegazioni delle difficoltà della Germania sono tutte concause credibili: immobilismo interno, deficit di innovazione, trasformazioni dell’economia, crisi politiche interne ed esterne. Qualcuno paventa anche l’assenza di politiche di bilancio espansive che risulterebbero urgenti e che sarebbero indolori per un paese tradizionalmente rigorista.

Ciò che non viene mai preso in considerazione è come un paese da tempo caratterizzatosi per crescita e frontiera tecnologica, che ha fondato il proprio sviluppo sulle esportazioni, sia finito vittima dello stesso modello che lo ha reso forte. Quel modello fondato sulla competitività che, se lasciato libero di dilatarsi all’infinito, genera una rincorsa verso il basso di condizioni di lavoro e di prezzo che in ultimo generano ristagno della domanda, salari contenuti, incertezza diffusa. Un piano inclinato della supercompetizione.

Unica contropartita certa di tale modello su scala internazionale è la crescita di profitti e rendite a fronte delle debolezze politiche e sindacali del lavoro. Sino a qualche anno fa la Germania era portata ad esempio in particolare per l’Italia, dove il ruolo negativo della supercompetizione può diventare ancor più intollerabile. Se non ci vogliamo consolare con la crescita del turismo e con quella di un’industria che fonda tanto del proprio successo su salari fermi senza pari in Europa. Da noi la transizione verso un modello ad elevato contenuto tecnologico e/o fondato sulla domanda interna appare ancor più un miraggio.

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