Suoni jazz nella natura bene comune
Intervista Intervista con il trombettista Paolo Fresu che da trentadue anni organizza «Time in Jazz», il festival internazionale di Berchidda (Olbia) che quest’anno ha vinto il premio «Cultura in Verde 2019»
Intervista Intervista con il trombettista Paolo Fresu che da trentadue anni organizza «Time in Jazz», il festival internazionale di Berchidda (Olbia) che quest’anno ha vinto il premio «Cultura in Verde 2019»
Il premio Cultura in Verde 2019 è stato assegnato a Time in Jazz, il festival internazionale di Berchidda (Olbia-Tempio) che «da anni adotta buone pratiche per la gestione sostenibile dell’evento e sensibilizza sui comportamenti eco-compatibili». Direttore artistico e fondatore del festival è il trombettista Paolo Fresu, di cui scopriamo la sensibilità per «l’unico bene comune che abbiamo»: la natura.
Fresu, lei è l’unico artista del progetto europeo «GreenFest» che si propone di ridurre l’impatto ambientale degli eventi culturali. Come ci è finito?
Da 32 anni organizzo in Gallura Time in Jazz, un festival internazionale cominciato in sordina nella piazzetta del mio paese, Berchidda, che negli anni è cresciuto fino ad avere 35mila spettatori. Nella piazza non ci stavamo più, quindi abbiamo portato i concerti nei boschi, sui prati, lungo i fiumi, negli stagni, sulle spiagge. Questo rapporto intenso con la natura ci ha imposto una riflessione sull’impatto che potevamo avere e su come mitigarlo. Organizzare un evento musicale che coinvolge migliaia di persone è non solo una grande responsabilità, ma ti dà la possibilità di usare uno strumento creativo per riflettere su altro, cioè di fare cultura.
Oggi il tema ambientale è quanto mai alla ribalta, ma voi avete iniziato in tempi non sospetti. Come è scattata la scintilla?
Ricordo bene quando dal 1997 abbiamo cominciato a proporre i primi concerti fuori dal paese, prima in una chiesetta campestre appena restaurata, poi nel verde, nei boschi, senza palcoscenico né sedie, senza amplificazione. Ricordo concerti durante i quali all’improvviso arrivava un gregge di pecore, o in cui alle note si univa il canto delle cicale o il suono del vento. Ho percepito una fusione totale tra musicisti e pubblico grazie alla natura e la straordinaria potenzialità della musica di generare una riflessione profonda e un’attenzione vera verso i luoghi nei quali ci trovavamo.
Da allora ci andate in punta di piedi…
Ci proviamo, almeno. Per quanto riguarda la corrente elettrica abbiamo creato un «carro dell’energia», cioè un furgone sul quale abbiamo montato pannelli solari che ci hanno permesso di essere totalmente autonomi dalla rete. Le batterie che caricavamo con l’energia solare però avevano una durata limitata e quindi dopo 50 minuti il concerto doveva finire. Il pubblico era avvisato. Da quest’anno abbiamo investito oltre 10 mila euro in batterie più prestanti, senza litio né piombo e c’è una squadra che lavora per perfezionare questo aspetto. Con le luci al LED abbiamo ridotto di tre quarti i consumi. Anche la stampa dei materiali promozionali è stata ridotta del 70%, mentre per l’acqua abbiamo predisposto fontanelle di acqua potabile per permettere alle persone di bere e riempire le borracce senza usare plastica. L’acqua la scaldiamo con il sole, mentre la mensa che serve i pasti alle 300 persone che lavorano per il festival utilizza solo materiale compostabile e, per quanto possibile, cibo che, se non proprio a Km0, arriva dalla Sardegna. Abbiamo convinto bar e ristoratori a non servire merendine imbustate ma dolci sardi, che sono molto più buoni. Ora vorremmo lavorare con Forestas, l’agenzia sarda delle foreste, per cercare di compensare le emissioni con delle piantumazioni.
Qual è l’aspetto più critico dell’organizzazione del festival?
Senz’altro quello della mobilità. Ci muoviamo su un territorio di oltre 20 comuni dove il trasporto pubblico è insufficiente. Alcuni luoghi sono di difficile accesso ai pullman, ma del resto è proprio lì che volevamo che la gente arrivasse. Abbiamo chiesto alle persone di condividere gli spostamenti e muoversi con le macchine piene. Abbiamo pensato alle auto elettriche, ma c’è una sola colonnina di ricarica nel territorio. Insomma, ci dobbiamo lavorare.
Altri stanno seguendo il suo esempio?
Certamente c’è un dialogo aperto con diverse realtà, penso a Umbria Jazz che sta lavorando su questi temi. Da parte mia ho imparato molto da Suoni delle Dolomiti, il festival che propone concerti all’alba nei rifugi, senza amplificazione, un esperimento che ha dato il la ad altri eventi.
Sulla base della sua esperienza, cosa si sentirebbe di suggerire alle istituzioni?
Non dico nulla di nuovo se dico che servono più risorse per la cultura. Inoltre, auspicherei un maggior dialogo tra i ministeri della Cultura e del Turismo, dell’Ambiente e dell’Interno. Dopo la tragedia di piazza San Carlo a Torino, i piani della sicurezza introdotti penalizzano chi organizza eventi nelle piccole realtà dove non ce n’è bisogno. Oggi organizzare un concerto in una piazza, in una chiesetta o in bosco è la stessa cosa. Va bene garantire la sicurezza, ma andrebbe garantito anche il rispetto del territorio, che oggi è lasciato alla sensibilità e alla discrezione dei singoli. Credo che tra i criteri di assegnazione dei fondi del Fus (Fondo unico per lo spettacolo) andrebbe inserito anche il rispetto dell’ambiente.
Come è cambiato il suo paese, Berchidda, in tutti questi anni?
Berchidda è cambiato molto. Ogni anno sale alla ribalta internazionale e le sue attività non si esauriscono nei 10 giorni dei concerti. Il festival ha un indotto economico importante: il Ciset (Centro internazionale di studi sull’economia turistica) ha calcolato che ogni euro investito nel festival genera 15 euro di spesa da parte degli spettatori. Mi disturba però parlare solo dell’aspetto economico, c’è una parte intangibile ancora più importante che è l’orgoglio di appartenere a questa comunità e a questo splendido territorio anche di chi non è appassionato di jazz. I giovani di Berchidda possono entrare in contatto con giovani che arrivano da tutta Italia e dall’estero. Dove c’era il caseificio della cooperativa Berchiddese, fallita all’inizio del 2000, e dove io da bambino ero fiero di accompagnare mio padre a portare il latte, c’è ora la sede di Time in Jazz. Dove si faceva il formaggio oggi si fa cultura, anche dell’ambiente.
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