La buona notizia, subito: il Festival Musicale del Mediterraneo di Genova, una delle creature culturali più longeve della difficile scena italiana non cesserà di esistere. Doveva essere l’edizione di un gioioso «addio» a tutti, perché il Festival ideato da Echo Art e Davide Ferrari quest’anno compiva venticinque anni, e l’intenzione era di congedarsi con un fuoco d’artificio finale: quattordici concerti fissi» in dieci giorni più diversi happening itineranti, un convegno sull’utilità della musica per combattere l’abbandono scolastico, un laboratorio, una mostra di strumenti, un’antologia di filmati «storici» sulla storia della rassegna. Invece è arrivata una risposta di pubblico e di interesse così confortante e convincente che alla fine, domenica 11, è arrivata la notizia dal palco. Il Festival Musicale del Mediterraneo continuerà. Magari, energie permettendo, fino al traguardo del trentennale. Non si spreca l’entusiasmo di una città che ad appuntamenti apparentemente solo «di nicchia» (peraltro dislocati in svariate location storiche), trattandosi di musiche tra tradizione e innovazione, riserva un’accoglienza calorosa, puntuale, e un interesse tutt’altro che esotistico.

E’ cresciuta una generazione di ascoltatori, e se le sorti della world music sembrano in generale mestamente in declino, in un mondo-mercato che non c’è più, sostituito da «click» sulla tastiera per avere subito precarie infarinature di musiche dal mondo, Genova almeno in questo si riprende la palma di città propositiva, aperta, consapevole. L’edizione di quest’anno era intitolata «Famiglie sonore»: nel duplice significato di note che vivono tramandandosi di generazione in generazione, spesso facendo convivere diverse stagioni della vita nel medesimo cerchio vocale e strumentale, e nel senso di «famiglie» che indicano estetiche musicali autonome e caratterizzate. A volte incrociando le cose: come nel caso del favoloso concerto a Palazzo Bianco, il 7, della famiglia di percussionisti iraniani Trio Chemirani, guidati dal «grande vecchio» Djamchid. Suonano principalmente lo zarb, il tamburo principe delle culture mediorientali, e riescono a trasformare le poliritmie vorticose quasi in contrappunti melodici, utilizzando una diteggiatura sulla pelle pressoché trascendentale, inarrivabile.

E un altro esempio potrebbe essere quello delle famiglia Bissevo, dalla Bulgaria, che gli appassionati di musiche dal mondo conoscono anche nella declinazione Trio Bulgarka o Misteri delle Voci Bulgare: il liuto tambura tra le mani, i sorrisi ieratici, e via con quel repertorio di picchi vocali e incroci impossibili tra voci che sanno acchiappare i quarti e gli ottavi di tono. Dall’Irlanda sono arrivate il 4 le Henry Girls: le ragazze della Contea del Donegal propongono un frizzante folk gaelico con violino, fisarmonica, arpa e voci freschissime che accorpano anche filanti cadenze pop, una piccola meraviglia. A rappresentare la famiglia» del minimalismo, anche uno dei rari concerti italiani di Roger Eno, pianoforte solo. Un compendio di eleganza asciutta, diretta, occasionalmente innervata di umori ironici molto british, a mezza strada fra new acostic music e reminiscenze di Satie e Debussy.Viceversa la «famiglia» del flamenco, rappresentata dal gruppo del virtuoso Juan Carmona ha convinto solo in parte, nel tributo al grande Paco De Lucia. Memorabili le parti per chitarra sola e con cajon. Estetizzanti e ripetitive quelle con il gruppo al completo.

Nell’impossibilità di citare tutto, una menzione almeno per la classe, l’eleganza e la signorilità antica del Tenores di Santa Barbana «Battista Morittu»: un viaggio polifonico per voci antiche che ogni volta ci racconta quanto Homo Sapiens ha saputo trarre, per l’arte, dal mondo della natura, trasformandolo in Cultura.