Colonisation – sea invasion: è uno dei lavori presentati nell’ambito della nutrita «sezione» di installazioni sonore della 67esima edizione, tutta consacrata all’elettronica, della Biennale Musica; l’ha congegnato Alberto Anhaus, classe 1996, formatosi come percussionista in conservatori italiani ed europei. Ma di quale invasione del mare si tratta? L’«invasione» delle alghe: Anhaus suggerisce però di guardarle non come fattore di disturbo, ma come essenziali regolatrici della vita acquatica nell’ecosistema lagunare; definendo «invasive» le alghe, l’uomo si pone in una posizione di superiorità rispetto a questi organismi, e evita di interrogarsi sul perché della loro proliferazione, cioè sugli squilibri o l’introduzione nell’ambiente lagunare di elementi che gli sono estranei, tutte dinamiche che dipendono dall’uomo stesso. Complessa e con molti piani offerti all’interpretazione, Colonisation – sea invasion coinvolge tre sensi, la vista, l’udito ma anche l’olfatto: potremmo dire che l’installazione ha tra i suoi scopi quello di restituire una reputazione alle alghe, così come quello di mostrare la loro bellezza. Al centro della scena, in una delle Sale d’Armi dell’Arsenale, un acquario contenente alghe: alcuni dei parametri, come temperatura e livello di ossigeno dell’acqua, sono influenzati dalla presenza dei visitatori, ed è un aspetto metaforico forte.

PER TERRA, a comporre una sorta di mosaico all’interno di un perimetro quadrangolare, ci sono delle basse vaschette di acciaio, con alghe, acqua e fango della laguna: viste così, con dentro distese alghe verdi o arancione scuro, le vaschette sembrano dei magnifici quadri astratti, ma viventi, se così si può dire a proposito di organismi in decomposizione, che però, quando le vaschette sono a intervalli irrorate d’acqua, fremono e si muovono. Intorno al perimetro stanno i visitatori, su pedane che alludono alle passerelle veneziane per l’acqua alta: mediante impulsi elettrici l’odore delle alghe viene diffuso in relazione a movimento e peso degli spettatori, altro aspetto metaforico. I suoni dell’installazione derivano da diverse fonti: il suono della decomposizione delle alghe, amplificato e manipolato; il suono delle fasi della fotosintesi delle alghe nell’acquario; e registrazioni subacquee di natanti nel Canal Grande. Nel suo romantico rovesciamento di prospettiva, dalla parte delle alghe, Anhaus si è domandato cosa potesse sentire un’alga, e ha constatato che il continuo rumore rendeva impossibile registrare i suoni delle alghe, e dunque si è chiesto: chi sta invadendo chi? Il lavoro è integrato da dati sul cambiamento climatico e sull’innalzamento del livello mare, e da interviste realizzate in maggio, in cui è stata posta una sola domanda, «come sarà per te Venezia nel 2100?»: per corroborare una riflessione sull’insieme di ambiente naturale e umano, e su Venezia come habitat complessivo in evoluzione. «Colonisation-sea invasion» è l’installazione di Alberto Anhaus, i Commodore pensanti di Robert Henke

NELLA SERATA di martedì, secondo giorno della Biennale Musica, sul palco del Teatro Malibran il pubblico ha trovato ad attenderlo una consolle con cinque Commodore del principio degli anni ottanta, prima generazione dei personal computer, veri pezzi di antiquariato: come Robert Henke si è premurato di spiegare prima di iniziare la sua performance audiovisiva (nei palchi c’erano anche delle scolaresche, ragazzi che dei pionieristici Commodore non dovevano aver mai sentito nemmeno il nome), dei computer con una potenza e una memoria infinitamente inferiori a quelle del cellulare che tutti noi abbiamo in tasca. La performance si chiama CBM 8032 AV, con riferimento al modello di Commodore. Nato a Monaco di Baviera, berlinese di adozione, Henke è tutt’altro che un passatista: ingegnere, è stato co-creatore di Ableton Live, uno standard per la produzione musicale che ha avuto grandi conseguenze sulla pratica della musica elettronica; ma, col nome di Monolake, è anche rinomato esponente della scena elettronica berlinese post-caduta del muro. Perché allora impiegare delle vecchie macchino «sorpassate» in un progetto che lo impegna già da anni? Perché mi piacciono le limitazioni, risponde Henke, verificare quanto posso fare con quasi niente.

E QUELLO che riesce a fare, con un gran lavoro di programmazione, è moltissimo: un affascinante insieme di elettronica quasi da ballo e di deliziosi giochi grafici che utilizzano solo128 caratteri – numeri, lettere, segni – di quel verdino tutto particolare, su fondo nero, dei vecchi computer. Ma c’è anche un’altra ragione, più «politica» che Henke spiega in uno speech il giorno dopo: essere completamente in controllo. Quei vecchi computer sono aperti, si può anche intervenire direttamente sulla struttura dell’hardware, e non dipendere dai programmi chiusi e imposti dalle grandi società: il piacere dell’autonomia, insomma.