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Sullo schermo armeno

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Cinema «El abrazo de la serpiente» di Ciro Guerra vince la dodicesima edizione del Golden Apricorn Yerevan Film festival diretto da Harutyiun Khachatryan

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 21 luglio 2015

La dodicesima edizione del Golden Apricot Yerevan International Film Festival si chiude con la vittoria di El abrazo de la serpiente di Ciro Guerra, film che ha debuttato quest’anno nell’ambito della Quinzaine des realisateurs di Cannes, e che si presenta, purtroppo, come un Herzog senza… Herzog, indeciso fra polemica anticoloniale e esplorazione lisergica. Nella competizione documentaria, la cui giuria era composta fra gli altri da Nuno Sena di DocLisboa e dal nostro Giovanni Donfrancesco (che ha conquistato lo scorso anno il primo premio con il suo magnifico The Stone River), ha vinto La creazione del significato di Simone Rapisarda Casanova (scoperto a Locarno) seguito da Une jeunesse allemande di Jean-Gabriel Periot, rievocazione attraverso materiale d’archivio della storia della R.A.F., per il quale rimandiamo alle cose scritte a suo tempo da Cristina Piccino da Berlino. Nell’anno del centenario del genocidio armeno, il festival diretto da Harutyun Khachatryan (che ha celebrato da poco il suo sessantesimo compleanno), si conferma come momento di primaria importanza per gli equilibri cinematografici della regione.

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A meno di due ore di volo da Teheran (numerose le famiglie iraniane in vacanza a Yerevan), con una presenza russa sempre molto forte che influenza in maniera determinante l’andamento dell’economia e dei prezzi (ma i giovani sono scesi in piazza in massa per protestare contro l’aumento del 40% dell’energia elettrica ottenendo che il governo ritirasse la proposta), e le tensioni con il vicino Azer Baijan purtroppo sempre vivissime, il festival si offre come uno degli appuntamenti di dialogo e scambio interculturale irrinunciabili da parte degli operatori culturali e cinefili della regione eurasiatica. Voluto, costruito e retto sulla reputazione che Khachatryan ha saputo conquistare nell’arco di una carriera che lo ha visto assurgere a protagonista di prima grandezza del cosiddetto cinema del reale cosa che, a sua volta, ha avuto una notevole importanza nel riportare anche l’Armenia sulle mappe di navigazione dei cinefili, il festival accoglie ogni anno numerosissimi ospiti divisi equamente fra critici, professionisti e registi. Autore di una filmografia rigorosa, caratterizzata da titoli potenti e misteriosi, Khachatryan ha costruito un festival ricco di proposte, articolato e, sostanzialmente, agli antipodi di quanto si potrebbe ragionevolmente sospettare osservando solo ed esclusivamente i suoi lavori.

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Con ospiti d’onore Ornella Muti e Nastassja Kinski, il festival riesce nell’impresa di offrire un brivido glamour a un pubblico generoso, in grado parlare fluentemente russo e inglese, e che accoglie sempre con interesse e rispetto proposte cinematografiche molto differenziate fra loro. Il festival, in questo senso opera un lavoro di distribuzione di opere che altrimenti mai sarebbero in grado da sole di superare la soglia di sbarramento delle richieste commerciali.

In questo modo film come La obra del siglo di Carlos Quintela o Aferim! di Radu Jude possono essere scoperte da un pubblico che, a giudicare numeri in sala, si presenta come attento e generoso. Giungendo nel cuore della notte a Zvartnots, il principale scalo dell’Armenia, si è accolti da enormi manifesti che celebrano il primo centenario del genocidio.

«Recognize Armenian Genocide» (Ammettete il genocidio), è la principale richiesta rivolta al mondo e alla politica. «I remember and demand» («Io ricordo e chiedo»), si legge su un poster. Un altro manifesto mette in relazione un fez rosso ottomano con il baffetto hitleriano. Se avessimo fermati loro, avremmo evitato lui dice grosso modo (citiamo a memoria). D’altronde non era Hitler che sosteneva nel 1939 che degli armeni massacrati dai turchi non si ricordava più nessuno? Intendendo, perché preoccuparsi oggi degli ebrei? E non dimentichiamo il ruolo cruciale avuto proprio dagli uffici tedeschi nell’organizzare le marce della morte nel corso delle quali sono periti centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini. La visita al museo del genocidio permette dunque di ripassare o addirittura di scoprire i momenti chiave di una tragedia che per molto tempo è stata dimenticata o rimossa.

Dimenticata o perduta come il film Ravished Armenia di Oscar Apfel del 1919 (noto anche con il titolo di Auction of Souls) tratto dal libro omonimo di Aurora Mardiganian (testimone oculare del genocidio che lo aveva anche interpretato) che su richiesta delle autorità turche dell’epoca è stato bloccato e del quale oggi non restano che una ventina di minuti. Così, mentre la politica turca ancora non riconosce e non ammette che genocidio c’è stato , il festival, invece, dialoga con la Turchia, ipotizzando piattaforme di collaborazione e di coproduzione evidenziando, ancora una volta, che la politica del cinema (a volte…) è più lungimirante e visionaria. Più giusta.

Sempre attento a ricomporre e a riportare a casa pezzi della diaspora armena, quest’anno il festival ha omaggiato il francese Robert Guédiguian cui è stato consegnato il riconoscimento Let There Be Light (Lasciate che sia luce) a Echmiadzin da parte di Karekin II, Catholicos di tutti gli armeni dal 1999 e 132esimo della Chiesa Apostolica Armena (considerata una delle chiese orientali antiche). Festival dall’impronta fortemente umanista, il riconoscimento ha voluto enfatizzare la difesa dei valori sociali proposta dal cinema del francese, oltre che celebrare le sue origini armene. Non a caso, sul piazzale antistante il magnifico cinema Moscou (Mosca), costruito dal regime sovietico nel 1930 dopo avere raso al suolo il sito dei Santi Pietro e Paolo, e che sorge in piazza Charles Aznavour al numero 18 di Abovyan, ci sono per terra i nomi dei grandi armeni del cinema. Da Rouben Mamoulian passando per Paradjanov e Henry Verneuil, una linea ideale di arte e cinema tesa contro l’oblio e la rimozione.

Un tentativo, forte e nobile, di ricostruire un’identità storica, politica e culturale che ha rischiato di essere cancellata per sempre. Io ricordo e chiedo.

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