«Sull’infinitezza», un apologo del presente
Al cinema Arriva nelle sale il nuovo film di Roy Andersson
Al cinema Arriva nelle sale il nuovo film di Roy Andersson
Qualcosa ha smesso di funzionare nel mondo raccontato da Roy Andersson, che con questo film era tornato a Venezia in concorso dopo il Leone d’oro conquistato con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) che pur nella sua sardonica fissità aveva momenti di puro divertimento. Non che Sull’infinitezza non possieda una sua freddissima comicità, ma forse oggi c’è meno da ridere e nei locali, nelle strade, nelle metropolitane e nelle stanze da letto di Andersson i suoi personaggi sembrano non avere più energia.
https://youtu.be/W7v_6UlHYkY
EPPURE da qualche parte deve essersi nascosta, come dice il primo principio della termodinamica citato nel film non a sproposito. Scarnificato al massimo, come tavole disegnate e appena in movimento, i suoi protagonisti senza emozione, senza attenzione al prossimo sono parte di un unico apologo sulla società, strisce di vita metropolitana contemporanea con l’anima dipinta a colori pastello. Sulla città in rovina fluttuano in volo due amanti, uno Chagall destrutturato, anemico, un volgere gli occhi non verso il vuoto come fanno per lo più i personaggi, ma verso il cielo, così come in chiave antibergmaniana un prete non si arrovella per i dubbi che gli mangiano l’anima, ma è perseguitato da incubi, tormentato dal pensiero di aver perso la fede. E nessuno ha tempo di dargli consigli, neanche lo psicanalista perché «dobbiamo chiudere, tra poco passa il bus». Tutti hanno perso qualcosa in questo film che mette in scena la mancanza: di amore, di attenzione, di trasporto, di voglie, di solidarietà.
Nei film di Andersson si mescolano personaggi del presente con quelli del passato, come il battaglione sconfitto in viaggio tra la neve verso la Siberia, scena anticipata con arguzia nel montaggio dai fiocchi di neve che cadono placidi durante il Natale tra l’indifferenza suprema degli avventori del bar.
E FORSE una delle parti più ricche di pathos, se il termine è adatto a un regista come Andersson, è quando fa la sua comparsa in una stanza del bunker tra i quadri rubati e gli ufficiali ubriachi, Hitler in persona, un uomo che voleva conquistare il mondo, sconcertato per il suo fallimento con lo sguardo di chi ha perso l’ultimo metrò.
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