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Sull’ignoranza: il comparativista Burke viaggia nella storia e tra i continenti

Sull’ignoranza: il comparativista Burke viaggia nella storia e tra i continentiEmma Willard, Temple of Time, USA, 1846

Storia culturale Per Montaigne era la ricetta per essere felici; oggi la società del sovraccarico informativo la diffonde tanto quanto la conoscenza... Ignoranza: una storia globale, saggio di Peter Burke (Cortina)

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 4 febbraio 2024

La dottrina dell’ignoranza non è il rovescio della dottrina della conoscenza: anzi l’estensione dell’accumulo di conoscenze acquisite via via attraverso l’uso mirato delle innovazioni tecnologiche e la loro diffusione ha evidenziato e inesorabilmente ridotto il campo oscuro di quanto ci era ignoto. Se non che, parallelamente è aumentato il desiderio di oltrepassare i confini raggiunti. La consapevolezza dei limiti delle capacità di capire le ragioni ultime del nostro sapere si è fatta più esigente e insoddisfatta. Da questa dialettica tra euforia e scontento, tra aggiunzioni e deficienze, è nata una sorta di complementarità oppositiva, che stabilisce una mutevole influenza tra concetti codificati e inevase ambizioni. Il fenomeno è facilmente verificabile se si tiene conto dell’insieme dei processi storici. Non è riscontrabile, invece, nelle singole persone o in consistenti gruppi, tenuti ai margini o privi delle condizioni minime soggettive richieste per impadronirsi delle nuove scoperte o di inedite mirabolanti invenzioni.

È questo solo uno dei paradossi su cui si sofferma Peter Burke, professore emerito di Cultural History a Cambridge e membro della British Academy, autore notissimo sul piano mondiale per testi di storia della cultura che hanno fatto epoca. Nell’accezione da lui impiegata la fluida categoria «cultura» coinvolge una quantità enorme di attitudini e ricerche su mondi dotti e ambienti popolari, su raffinati livelli alti e in strati sociali bassi. Nel suo celebre manuale What is Cultural History? (2004) Burke tracciò un profilo compiuto di come si è pervenuti a una storiografia non prigioniera delle istituzioni e del potere, ma tesa a rimandare «anche alla cultura della quotidianità, cioè alle abitudini, ai valori, a un modo di vivere».

In tradizioni come quella italiana il livello alto aveva teso a occuparsi di storia delle idee e quello basso, proprio delle cosiddette classi subalterne, era perlopiù sfociato in analisi del folklore, della creatività spontanea e istintiva. Lo studio delle cultura dei ceti più elevati preferiva, almeno fino a pochi decenni fa, dedicarsi a discipline letterarie e umanistiche in genere. Norbert Elias fu tra i principali che sostituirono a «cultura» gli andamenti della «civilizzazione» (1939), ricorrendo a moduli sociologici. Nonostante questo enorme ampliamento di indagini, la periodizzazione prescelta restava stretta tra il XVI e il XIX secolo ed era localizzata in Europa, con marcata predilezione per la prima età moderna (avanti l’Ottocento) e, in misura inferiore, per la seconda età moderna.

Con eccesso di umiltà, Burke non fa mistero dei limiti della mappa che si era formata negli anni con contributi ormai classici. Ora afferma ch’è venuto il momento di superare le consuetudini ed esplorare oltre, in Africa come in Asia, iniziando a praticare una globalità spesso proclamata soltanto a parole. È obiettivo che enuncia quasi sottovoce, com’è nel suo stile. E questo volume, straordinariamente fitto di esempi e situazioni, avvia nuovi capitoli del suo inesausto lavoro: Ignoranza Una storia globale (Raffaello Cortina Editore «Scienza e Idee», traduzione di Riccardo Mazzeo, pp. 400, € 25,00). La struttura che gli ha conferito è scandita per titoli tematici, non segue un ordine linearmente cronologico. E abbonda a dismisura di un comparativismo che balza disinvoltamente da un continente all’altro con i rischi e le sorprese che inanella. Si sa che il comparativismo cui Burke ha sempre fatto ricorso comporta rischi tanto maggiori quanto più si allarga lo spettro cui attingere. Talvolta la storicizzazione delle situazioni accostate si risolve in affini visioni prevalentemente antropologiche e universalistiche. Talune rigidità classificatorie vanno accolte con prudenza.

Già Carlo Ginzburg, introducendo (1980) l’edizione italiana di Popular Culture in Early Modern Europe (1978) scriveva che quanto «caratterizzava la cultura delle classi popolari nell’Europa preindustriale era (…) un rapporto fitto e complesso con la cultura delle classi dominanti, fatto di scambi e contrapposizioni, di tensioni e omogeneità» e concludeva sottolineando che si trattava di «una circolarità da ricostruire analiticamente, senza apriorismi».

Il massiccio volume di Burke si divide in due parti: «L’ignoranza nella società» e «Le conseguenze dell’ignoranza», ma non si pensi a una filippica illuministica tesa a esaltare il faticoso riscatto dalle ignoranze che l’umanità trascina con sé e a esaltare il bagaglio delle conoscenze quale sicuro approdo conoscitivo. Nelle prime pagine non si lesinano posture scettiche, a partire da Michel de Montaigne, che riteneva l’ignoranza «una ricetta migliore della curiosità» per esser felici, né si trascura il requisito paradossale consigliato da John Rawls, secondo il quale un «velo di ignoranza» che attenui i concetti di razza, classe, nazione o genere aiuta a vedere «gli individui come esseri moralmente uguali». Oggi, e ciò può apparire assurdo, «è l’abbondanza a diventare un problema, un problema noto come ‘sovraccarico informativo’». Sia per il mancato filtraggio (filter failure) cui i dati sono sottoposti, sia per l’intenzionale adozione di malevole storpiature, «la nostra cosiddetta ‘società dell’informazione’ – ammonisce Burke – alimenta la diffusione dell’ignoranza perlomeno quanto contribuisce alla diffusione della conoscenza».

Abbandonate le premesse improntate a eleganti filosofemi, si entra nel merito di un viaggio che si snoda bizzarro tra passato e presente, e trae sintomatiche dimostrazioni da una geografia sterminata: è la legge che presiede all’«agnoiologia» (Agnoiology), termine coniato dallo scozzese James Frederick Ferrier nel 1854, opposto a «epistemologia» (Epistemology, dottrina del sapere). Durante la prima modernità l’ignoranza femminile era incentivata a bella posta. L’arcivescovo Fénelon, all’altezza del XVII secolo, prescriveva che le ragazze fossero educate inculcando principi religiosi e insegnando loro i modi di un’economia domestica. Non faceva che allinearsi a una pedagogia seguitissima e dominante nei secoli bui del Medio Evo. Fino a tempi recenti nelle Università i curricula accademici non erano solo impartiti da maschi, ma da cattedratici uomini erano impostati e strutturati. Bisogna arrivare agli ultimi anni settanta perché siano rilevati i vuoti di discipline umanistiche proibiti alle donne.

Sono inaggirabili a questo punto le perplessità di chi storce la bocca di fronte a un impiego della categoria di «ignoranza» in una tale pluralità di accezioni che finisce per coprire condizioni profondamente diverse. Burke previene le critiche e avverte che, se «ignoranza» è un «termine ombrello» e dà luogo a una polifonia di significati da distinguere e classificare, il fenomeno ha tratti sociali condivisi o similari e la storia culturale può essere scritta con una scansione narrativa (Sahlins, 1985). Se l’analisi prende di mira le tecniche militari sarà banale rendersi conto che sempre più esse sono diventate battaglie tra l’ignoranza e la conoscenza. Si legge non senza un brivido di angoscia una secca convinzione: «i piani dei vincitori ebbero successo soprattutto perché il nemico non si aspettava quel che sarebbe realmente accaduto». In politica non è la conoscenza a guidare mosse e strategie o a consentire controlli dal basso. Chi sa davvero come funziona un sistema politico? Il viaggio intrapreso con orgoglio è siglato da una massima che discende da una cultura esente da illusioni: «Il guaio è che coloro che detengono il potere spesso mancano delle conoscenze di cui avrebbero bisogno, mentre coloro che possiedono quelle conoscenze non hanno il potere». Il viaggio prosegue. Verso dove?

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