Cultura

Sulle tracce di una realtà altra

Sulle tracce di una realtà altra

Itinerari critici Alcune riflessioni intorno a «Le parole per scriverlo. La parola e la ferita» di Wanda Tommasi, per Mimesis. Dal corpo a corpo con la propria madre soffocante al tema della perdita, passando per il coraggio. Nemirovsky, Cardinal, Kristof, O’ Connor e Ortese: ciascuna seguendo il proprio cammino, apre un varco letterario a partire da un trauma doloroso. La dicibilità dell’inaudito, nell’esercizio femminile della scrittura, è il filo conduttore che l’autrice segue, riattraversando l’opera delle scrittrici del Novecento che ha scelto

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 26 novembre 2021

Le parole per scriverlo. La parola e la ferita (pp. 144, euro 14) è il titolo dell’ultimo libro di Wanda Tommasi, pubblicato dalla casa editrice Mimesis nella collana «Lo scandalo della differenza» diretta da Lucia Vantini e Chiara Zamboni. È un libro che colpisce per la chiarezza dell’impianto argomentativo. Offre una panoramica sul nucleo profondo delle tracce delle proprie ferite nella produzione letteraria delle donne.

L’assunto di partenza è la «convinzione che ci sia una grande capacità femminile di accogliere il dolore, di ospitarlo e di elaborarlo». Una capacità che le donne acquisiscono con l’esperienza e che riescono a rendere intellegibile nelle loro narrazioni facendo affidamento sul proprio sentire e rispondendo all’urgenza di trovare una propria parola di verità.

L’AUTRICE, ex docente universitaria di storia della filosofia che ha sempre lavorato e lavora tuttora alla valorizzazione del pensiero delle filosofe del XX secolo, si affida alla scrittura letteraria perché la vede come mezzo primo di analisi di ciò che è stato rimosso, omesso, ignorato. Ma anche come esperienza di alterità e di decentramento. Il vincolo tra scrittura e vita apre a un confronto serrato con il negativo e a un ascolto di sé empaticamente ricettivo all’elaborazione del dolore. Riportare alla luce le trame intricate dell’esistenza, consente di dare forma al disordine interiore, di non essere risucchiate da un abisso senza fondo, di uscire dal mutismo e dalla tentazione estrema del suicidio. Ritrovare così un senso a ciò che è atroce e insensato.

La dicibilità dell’inaudito, nell’esercizio femminile della scrittura, è dunque il filo conduttore che l’autrice segue riattraversando l’opera di quattro scrittrici del Novecento. Prima di svelare i loro nomi, precisiamo che lo sfondo ermeneutico che sostiene il procedere discorsivo del libro s’iscrive pienamente all’interno di quello del pensiero della differenza sessuale.

Esponente della comunità filosofica femminile Diotima dell’Università di Verona, Wanda Tommasi è acuta ricercatrice della politica del simbolico e della sessuazione del linguaggio, del pensiero e della scrittura. Diviso in quattro capitoli, il libro parte dalla relazione conflittuale madre-figlia in due autrici che, in maniera diversa e tormentata, si sono inoltrate nei meandri di ciò che il pensiero della differenza sessuale italiano ha nominato l’oscuro materno.

LE PRIME DUE su cui si sofferma sono Irene Nemirovsky e Marie Cardinal. La prima fa riferimento a un odio verso la madre senza riparazione di cui si farà carico, due generazioni dopo, la nipote. La seconda racconta della «carognata di sua madre» riferendosi ai suoi vari e vani tentativi d’aborto. Nel loro scrivere, le madri sono viste mostruose e soffocanti, sono percepite avversarie e nemiche da cui ci si deve liberare. Attraverso uno scavo quasi psicanalitico, riescono a trovare il modo di raccontare la loro sofferenza indicibile e attuano delle inversioni che, in maniera diversa, le porteranno al risanamento delle ferite e a una certa salvezza. Nel caso di Marie Cardinal, il corpo a corpo con la madre la porterà a comprendere il lato oscuro di una vita soggiogata dall’ambiente sociale e dai pregiudizi.

Il secondo capitolo affronta l’opera letteraria di Agota Kristof. Qui è il tema del trauma, dell’esilio, dello sradicamento e della perdita della lingua materna a essere al centro di quella frattura insanabile da cui muove la scrittura. La sensazione di estraneità e di analfabetismo data dall’abitare forzatamente un’altra lingua, fa emergere la nostalgia delle radici perdute e la consapevolezza che non smetterà mai di «sentire» in ungherese. «Scrivo in francese ma sento in ungherese», dirà Kristof.

Questa è la lotta e la sfida che Wanda Tommasi ripercorre per mostrare come, nonostante le sfavorevoli circostanze che permeano la sua vita, la scrittura le consente di costeggiare il dolore senza darne una soluzione. Offre la possibilità di custodire il filo di continuità con l’infanzia e la lingua perduta.

Il terzo capitolo è centrato sulla «fiera» claudicanza di Flannery O’ Connor. La terribile malattia infiammatoria cronica autoimmune del tessuto connettivo che l’accompagnerà per tutta la vita, diventa maestra di saggezza. L’accettazione del dolore quotidiano le restituisce la misura della propria fierezza e del proprio coraggio. La sua scrittura, che l’autrice definisce aspra e profetica, dice l’irrimediabile limitatezza della vita umana ma anche dell’improvvisa apertura di squarci in cui irrompe la grazia.

LETTRICE di Simone Weil, Flannery O’ Connor fa dell’umiltà e del decentramento da sé una chiave politica per interpretare il «mistero» della realtà visibile e invisibile connesso a quello della libertà umana. Sa che il compimento ultimo non è nelle nostre mani. È necessario allargare la nostra ragione visionaria, punto di partenza di ogni azione creativa. Qui emerge una delle idee chiave del libro, cioè la capacità di rimpicciolirsi senza diminuirsi. Un’espressione che Wanda Tommasi riprende da Haim Baharier e che significa agire nell’umiltà della propria imperfezione e limitatezza senza sentirsi per questo sminuiti.

L’ultimo capitolo è dedicato al tema della perdita in Anna Maria Ortese. L’avventura della scrittura si apre da un evento tragico: la morte del fratello Emanuele. Interpretata quale «pensatrice del negativo», la sua espressività letteraria è attraversata da un dolore pieno di tenerezza verso tutto ciò che compone la trama del reale. La partecipazione compassionevole al dolore del mondo, le hanno messo di fronte le tracce di una realtà altra. Per lei si tratta di colmare quel vuoto con parole di luce, di fare della scrittura una benedizione.

DA QUESTO EVENTO personale lo spostamento su un disagio metafisico diffuso, poiché la perdita pervade ogni dimensione. Perdita di un contatto vero con la natura, perdita del nostro sentire più profondo, perdita del senso più autentico del desiderio, perdita della realtà. La scrittura testimonia di questa perdita assoluta per qualcosa di irrecuperabile ma, nonostante questo, riesce, nell’incedere ritmico delle sue parole, a farsi canto, a trasformarsi in rispetto verso ogni forma di vita, agendo così un amore mistico per tutte le creature. La durezza del vivere non spegne la potenza dell’amore che, come giustamente nota Tommasi, non cancella ingiustizia e violenza, ma è capace di stare accanto.

Qui ritorna la dimensione inaccessibile del mistero cui solo una fede incrollabile può dare qualche forma. «Credo in tutto ciò che non vedo», scrive Ortese, nella consapevolezza che la terra è abitata anche in modo invisibile. Ci si deve sporgere su una realtà spirituale più profonda per rimediare agli innumerevoli squilibri che l’umanità ha prodotto. Solo da qui è possibile intravedere che siamo stretti in un unico respiro, che ciascuno e ciascuna fa parte di questo respiro del mondo.

Incrociare lo sguardo delle sue bestie-angelo – l’iguana, il folletto, il puma – significa incontrare il divino ed esporsi all’esperienza di un’alterità assoluta. Il «genio femminile» nasce dall’angoscia scatenata nel sentire la potenza del patriarcato che blocca il respiro e la ricerca della propria alterità. Wanda Tommasi, con il suo lavoro, pone al femminismo italiano e non solo una domanda alla quale non si è ancora risposto con radicalità. Dove nasce l’odio per la madre? Il destino di queste scrittrici, ciascuna seguendo il proprio cammino, ci indica che è proprio dalla ferita mortale che si apre un varco per dire l’indicibile di sé e della propria madre.

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