La morte è uno spazio bianco, opaco, arduo attraversarla se non che con le parole di quante e quanti non ci sono più: Biancamaria Frabotta è stata consapevole del valore di quanto ha scritto e non si è sottratta alla riproposizione di opere anche apparentemente molto lontane nel tempo dalla propria poetica come Velocità di fuga, l’unica sua opera narrativa datata 1989, consegnata per una nuova edizione alla collana Visionaria della milanese Fve nel 2022 (prefazione di Biancamaria Frabotta e una nota di Manuela Fraire, pp. 248, euro 18), poco prima della sua morte.
Positiva la riproposizione di molte opere di scrittrici di vaglia scomparse da tempo dagli scaffali delle librerie, da Dalla parte di lei di Alba de Céspedes (Mondadori 1949, 2021, introduzione di Melania G. Mazzucco) ai racconti della raccolta sempre decéspediana L’anima degli altri, pubblicata per la prima volta nel 1935 e ora tornata nel 2022 per Cliquot edizioni con una prefazione di Loredana Lipperini, mentre la riproposizione di Nessuno torna indietro (1938) negli Oscar Mondadori non ha alcuna nota di accompagno se non il risvolto di copertina; di Fabrizia Ramondino sono state riedite L’isola dei bambini (1998 e/o 2020, introduzione di Marco Rossi Doria) e Guerra di infanzia e di Spagna, introvabile dalla prima edizione einaudiana del 2001 e ora riconsegnata alla lettura da Fazi nel 2022 con una prefazione di Nadia Terranova; ma mancano all’appello, fra i tanti suoi bellissimi, Un giorno e mezzo, del 1988, e Passaggio a Trieste, del 2000, entrambi einaudiani.

PER ARRIVARE INFINE a scrittrici come Anna Seghers di cui L’orma editore ha ripubblicato nel 2020 il bellissimo Transito che dagli anni Novanta non era più in libreria: tradotto in Italia con il titolo Visto di transito nel 1953, corrispondente ai tempi presenti oggi più ancora che allora, fu recensito da Fausta Cialente su Noi donne che ne sottolineò l’atmosfera allucinata della difficile situazione storica in cui era ambientato; e di Anna Seghers varrebbe riproporre i magnifici racconti raccolti ne Il vero azzurro, pubblicati ormai nel lontano 1988 dagli Editori Riuniti.
Si deve a un cambiamento del simbolico l’attenzione che piccole case editrici, sempre pioniere nel loro lavoro di scavo, ma anche più grandi e affermate stanno rivolgendo a opere di scrittrici che sembravano dimenticate, ma non certo dimenticate dalla critica letteraria femminista che, dagli anni Settanta, ha lavorato con continuità per evidenziare il valore del contributo delle scrittrici alla letteratura. Critica che ha uno dei suoi passaggi fondamentali nel libro Letteratura al femminile di Biancamaria Frabotta, pubblicato dalla casa editrice De Donato nel 1980, in cui fin da subito Frabotta delineò con chiarezza i rischi del costituirsi di un genere minore quale quello della letteratura (al) femminile, rispetto cui lo sguardo di Frabotta e della critica femminista che allora andava costituendosi era ed è sempre stato lucido.
Si trattava, allora come oggi, di leggere le opere delle scrittrici cogliendone l’originalità e la sperimentazione di stile e scrittura, cosa questa al centro della riflessione anche in Velocità di fuga, perché Biancamaria Frabotta è stata poeta, critica di vaglia, femminista sempre e anche narratrice, come mostra questo romanzo che lei stessa ha scelto di riproporre definendolo nella sua prefazione all’edizione del 2022 un romanzo a chiave, un’allegoria, un romanzo di formazione: protagonista e voce narrante un io di donna venticinquenne in conflitto sagace con la madre Elvira cinquantenne, che fin dalle prime pagine le ricorda che la libertà è un esercizio acrobatico, che l’essere altrove è qualcosa da reimparare ogni volta, in una sorta di nomadismo continuo e perseverante.

TEMI E POSIZIONAMENTI attualissimi e contemporanei, si vorrebbe dire, tanto più che l’io narrante piuttosto che con la figura materna è in un rapporto di dipendenza con gli uomini del mondo universitario che frequenta, dai quali con difficoltà, causa l’impervio e ambiguo intreccio di seduzione erotica e intellettuale, riesce a prendere le distanze.

I personaggi di Eugenio, Beniamino, Fausto sono i cosiddetti Inseparabili della Sapienza, del cui «totemico clan io non sono se non l’ultima sorellina perduta fra le ruote minori del carro che ci trasporta verso il futuro», osserva l’io narrante, a cui non fa certo difetto l’ironia. E che cerca di tenere a bada quelli che lei stessa definisce «gli imbarazzanti palpiti del mio cuore femminile» grazie alla logica combinatoria degli scacchi.
L’aiutano in questo le Inimitabili con la I maiuscola, ovvero le scrittrici alle quali si rivolge per avere lumi nelle notti infinite di insonnia e pensieri: sono così evocate in forma di papesse Katherine Mansfield, Simone de Beauvoir, la Principessa di Clèves, Virginia Woolf, Djuna Barnes, Colette e molte altre. A ognuna di loro, dee della notte, è dedicata una lettera e uno specifico culto, invocata la loro protezione per «i miei clandestini esercizi di bella calligrafia», perché «Io diventerò una scrittrice anche se so bene che non è tutto oro quel che riluce».
Vi è, infatti in questo testo un nomadismo anche stilistico: Velocità di fuga alterna l’interlocuzione con le grandi che l’hanno preceduta a una scrittura in forma di diario di una «avara società senza padri» come acutamente scrive la voce narrante, quale quella che si rappresentò alla fine degli anni Ottanta in Italia, tramontati ormai gli anni Settanta con tutto quello che hanno significato – ma di lì a poco vi fu il movimento studentesco della Pantera e ciò che comportò la sua sconfitta e quella dei movimenti successivi.
Si tratta di un tramonto del patriarcato che travolge anche i padri simbolici migliori: pallide ombre Marx ed Engels nel panorama di fine secolo tracciato da Frabotta alle soglie della caduta del muro di Berlino, e non vi sono figli che riescano a ereditarne lo sguardo in avanti. I personaggi maschili di Velocità di fuga appaiono infatti vacui, irrisolti, compresi nel loro ruolo ma irrimediabilmente infelici e sostanzialmente spenti, a un certo punto osservano «Nemmeno come personaggi valiamo molto ormai».
Ritratto di un tempo storico e di una generazione i cui riverberi arrivano fino a noi, se sconcertante risulta leggere – e sono passati 34 anni dalla sua prima pubblicazione, lo ricorda Frabotta nella prefazione – «Un altro palestinese ucciso a sangue freddo, ieri! A voi non importa nulla, vero?»; e in una vecchia copia del manifesto Beirut è completamente paralizzata, vi è il coprifuoco, le scuole sono chiuse molte centinaia di persone fanno la fila davanti alle panetterie.

PIÙ CHE ROMANZO di formazione, quindi un romanzo di deformazione e decostruzione di un tempo storico e del genere maschile e femminili così come consegnati dalla tradizione, teso a cercare di capire come divenire diversamente donna e come divenire scrittrice in un mondo che contempla le scrittrici ancor meno della differenza femminile. Il nomadismo esistenziale è ben rappresentato dal diario di bordo di Cristoforo Colombo trascritto da Bartolomeo Las Casas, citato a mo’ di viatico per la navigazione in un mondo che sembra noto e in realtà è ignoto, su cui si affacciano donne altére e altre, diverse dalla madre Elvira e che hanno nome Amanda, Olga, Dirce. La lettera a Simone de Beauvoir si conclude con «per fortuna io non sono destinata a una vita di massaia. Per fortuna io non sono destinata a una vita. Per fortuna io non sono».
Ma dopo l’incontro con le altre – e il pensiero va alle altre di Rossana Rossanda – la protagonista scrive «io sono fuori, sono altrove, sono indietro, sono avanti, sono via» e la velocità di fuga è tale che non vi è più fortuna né destino di sorta. Che la vita e la scrittura siano state pienamente nelle mani di Biancamaria Frabotta è qualcosa di cui ci ha fatto dono, anche con questa metamorfica Velocità di fuga che permane, sorridente, tra noi.