Sulle tracce della cumbia
Note sparse Nahuel Martìinez e FiloQ sotto la sigla Viva Viva Malagiunta raccontano il loro album «Desandar». Nel disco una combinazione di vari elementi, sospesi tra folk e elettronica
Note sparse Nahuel Martìinez e FiloQ sotto la sigla Viva Viva Malagiunta raccontano il loro album «Desandar». Nel disco una combinazione di vari elementi, sospesi tra folk e elettronica
Metti un argentino e un genovese che decidono di pensare musica a partire da un viaggio geografico a ritroso (nel tempo e nello spazio), sulle tracce della cumbia. Occasionalmente, poi per un album che ha le stesse coordinate geografiche di un’esplorazione musicologica sul campo, che hanno deciso di chiamare, per questo, Desandar. Sono Nahuel Martìnez (Mr Paquiano), protagonista del viaggio-esplorazione dal piglio etnomusicologico in questione, e Filippo Quaglia (FiloQ), due djs/producers riuniti sotto la sigla, Viva Viva Malagiunta. Un viaggio che il fumettista Davide Toffolo ha già raccontato nel suo graphic novel, Il cammino della cumbia (Oblomov, 2018). «Desandar è un termine che non ha una traduzione precisa in italiano, ma indica proprio questo andare a ritroso. Infatti il disco mette in musica il viaggio che ho fatto con Davide partendo dall’Argentina fino ad arrivare a El Banco di Magdalena nella Colombia rurale, dove è nata la cumbia», spiega Nahuel Martìnez. Solo che questa volta il compagno di viaggio non è un prodigio della matita, ma un abile manipolatore di Ableton cresciuto avendo nelle orecchie un «soundscape» che tiene conto delle diverse derive indie elettroniche e di altre musiche d’oggi.
VA DA SÉ che Desandar non è un’operazione di sopravvivenza archeologica ma neanche una semplice sonorizzazione tesa a creare un ritratto sonoro di un ambiente (acustico), nonostante la combinazione tra il folk e l’elettronica sia alla base del disco. Ma prende una forma e un contenuto che si distacca concettualmente dall’idea di paesaggio sonoro, è musica da ascoltare pensando «più a una montagna da scalare che da osservare», muovendo il dito sul mappamondo o giocando sullo smartphone con Google maps, con la curiosità di ricercare i luoghi da cui hanno origine la varietà delle musiche folkloriche che ispirano il disco. Che se ne va poi per la sua strada in un continuo andirivieni tra antichità e contemporaneità. «Con FiloQ avevamo amici in comune e abbiamo cominciato a frequentarci e a fare cose insieme spontaneamente quando è partito l’Istituto Italiano di cumbia. Lui è in grado di manipolare qualunque cosa gli passi tra le mani, quindi è entrato in questa operazione di aggiornamento della cumbia e del folk latinoamericano, una cosa che i djs e i produttori in Sud America portano avanti già da molto tempo. Si pensi ad esempio al giro di argentini della ZZK. Lì hanno a cuore il fatto di trasportare la tradizione ai giorni nostri, di renderla attuale e ballabile nelle piste da ballo contemporanee, nei club. È così che vive la tradizione. La tradizione è qualcosa che le nuove generazioni scelgono di portare avanti, non è qualcosa che puoi inculcare. Ci sono cose che muoiono col tempo, per fortuna, come i riti antropofagici, e altre che vengono portate avanti». È sempre Nahuel a prendere la parola per riallacciare i fili. Campionano molto e improvvisano all’uopo, i due, e tutti i suoni sono sottoposti a un trattamento elettronico, in bilico tra rigore e fantasticheria, senso della misura e sfacciataggine. «È il più bel complimento che ho avuto da Andrés Oddone quando gli abbiamo chiesto di mixare il nostro disco. Mi ha detto che sono stato svergognato. Lui è l’uomo dietro i dischi dei migliori artisti della ZZK, come Chancha Via Circuito, e questa gente qua. È come fare un disco funk e andare dall’uomo che mixa i dischi della Motown. Nel disco abbiamo campionato anche strumenti antichissimi come il siku, (un aerofono di area andina, nrd) molto bistrattato in Sud America, lì i produttori non si sognano neanche di considerare uno strumento del genere, che viene messo nel compartimento della vergogna», prosegue nella spiegazione Nahuel.
«MA NOI abbiamo voluto dare un nostro suono a tutto questo materiale di base. La nostra preoccupazione era di non omologarci ad un suono che è diventato ormai abbastanza riconoscibile, perché è strutturato sempre nello stesso modo. Abbiamo ricercato una strada nostra che ci facesse distinguere. Il live set è molto più fisico, puntiamo più alla corporeità aumentando i bpm, per far ballare la gente. Con noi c’è anche il batterista Teo Marchese, che ha un drumming molto black, conosce molto bene la black music. È lui il nostro motore ritmico» interviene FiloQ.
L’UNICA VOCE del disco, dall’attitudine strumentale, è quella de La Walichera, una presenza che illumina le atmosfere dark di Socavòn. Chiosa Nahuel, «Non l’ho mai conosciuta di persona, perché lei vive in Messico. Ma ero stato molto franco con lei in un’occasione e lei mi ha sfidato ad invitarla qualora se ne fosse presentata l’occasione. Il suo contributo è stato notevole sia nella scrittura che nell’interpretazione del brano, che è un inno alla nostra madre Terra, una preghiera umanista, e perfetta sintesi tra il sacro e il profano, da cui trae la sua ispirazione».
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