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Sulla morte di Sharon

Sulla morte di SharonIl funerale di Ariel Sharon – Reuters

Il manifesto domenica 12 esce con parole chiare su Ariel Sharon morto il giorno prima, unico quotidiano in Italia. Tuttavia nelle pagine dello stesso giornale, non si sa perché, la […]

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 17 gennaio 2014

Il manifesto domenica 12 esce con parole chiare su Ariel Sharon morto il giorno prima, unico quotidiano in Italia. Tuttavia nelle pagine dello stesso giornale, non si sa perché, la «cultura» fa diversi sconti al sionismo. Come se quando si tratta d’Israele la “cultura” rispondesse a verità insondabili non rapportabili in alcun modo a quelle della cronaca e della storia. La recensione della pièce di Yehoshua sull’incontro tra Ben Gurion e Jabotinskij asseconda lo stile vago e fumoso sulla realtà concreta utilizzato, a quanto pare, dall’opera di cui si parla.
Persino l’introduzione storica con cui si apre, piuttosto che essere chiarificatrice, riesce ad alimentare l’ambiguità, guidando in modo fluido verso l’assunzione del punto di vista sionista, verso una «normalizzante» narrazione del passato nella prospettiva dell’accettazione del presente senza riferimenti qualificanti: unica concretezza i trattamenti discriminatori e poi le persecuzioni naziste verso gli ebrei.
La presentazione edulcorata dei due personaggi, poi, è al limite dell’inverosimile. Ben Gurion ne esce come un bonario e quasi paterno socialista e lo stesso Jabotinskij è un cavaliere senza macchia e senza paura: tributa il pieno riconoscimento dell’onore delle armi al nemico palestinese, ma è di «un sionismo granitico, intransigente e bellicoso», mai «razzista», «incarna un sionismo senza sbavature». Molto sorprende che nessun cenno di rilievo critico venga mosso alla proposta di Yehoshua in relazione al “ognuno andrà per la sua strada” riferito ai due protagonisti. Il grande assente, sempre, nel prodotto di Yehoshua e nell’articolo che lo presenta, è il popolo palestinese: il «terzo escluso» taciuto e dimenticato. Esaltare la differenza tra i due politici, senza rilevare le conseguenze possibili o storicamente verificatesi sui «terzi esclusi» (i Palestinesi), come invece sarebbe stato doveroso, soprattutto dopo che si è voluto dare un’ambientazione storica di respiro retrospettivo all’incontro dei protagonisti, significa abbracciare senza riserve la posizione sionista di Yehoshoua. Ciò costituisce un aiuto sostanziale a nascondere l’oppressione esercitata da Israele.
Flavia Lepre

La lettera esprime un’opinione legittima, come legittimo è ogni pensiero nella molteplicità dei punti di vista. Un’opinione legittima ma incongruente. Mi si attribuiscono pensieri che non ho pensato e la lettera cerca, con cura, dietro le parole quello che non c’è. Rincorrendo una convinzione indeformabile, l’argomentazione deraglia e perde di vista lo scopo e l’argomento del pezzo. Chi scrive compie, a mio avviso, un errore di misura.
Non si tratta, qui, di ripercorrere la storia del conflitto israelo-palestinese, né di rifare a ritroso la strada che dall’oggi risale alla fine dell’Ottocento. Una strada che tutti, me compreso, sappiamo piena di offesa e prevaricazione. Non si tratta di conoscere il mio punto di vista su questo. I miei panni non sono quelli dell’opinionista, né dell’editorialista. Non sono chiamato a fare considerazioni di natura politica, tantomeno a propagare un’idea. Non devo e non voglio addolcire, normalizzare, né veicolare attraverso le parole un’apologia. Tentativo che, invece, la lettrice sembra scorgere. Mio intento e mio compito sono la presentazione dei contenuti di un’opera che ha come protagonisti due ebrei diversi e opposti. Chi la scrive è un ebreo, nato in Israele. Convinto sostenitore del processo di pace, così come del diritto di Israele a esistere. Nient’altro. Ma non serve, qui, richiamare cose che sono presenti a tutti. Anziché forzare legami e attribuire fini secondi e coperti, bisognerebbe ragionare su questo. Sulla specificità del compito, che deve presentare un’opera, non un’idea del mondo.
Chiuderei richiamando la coincidenza importante della morte di Ariel Sharon. E lo faccio non con le mie parole, secondarie e trascurabili, ma con quelle dello stesso Yehoshua.

[do action=”quote” autore=”Abraham Yehoshua”]«Nel complesso considero Sharon un personaggio che ha fatto più danni a Israele che benefici. Io rispetto i leader che vedono in anticipo la strada giusta e morale da seguire e convincono il popolo a unirsi a loro. Ariel Sharon non era uno di questi leader»[/do]

Parole comparse su La Stampa di lunedì 13 gennaio: «Nel complesso considero Sharon un personaggio che ha fatto più danni a Israele che benefici. La parziale legittimità che i sostenitori della pace gli hanno concesso per il (…) ritiro dalla Striscia di Gaza (…) non lo esime a mio giudizio dalla responsabilità dell’enorme danno causato a Israele dalle decine di insediamenti da lui voluti nei territori palestinesi (…). Io non sono un ammiratore di leader forti e astuti che, dopo aver creato inutili crisi, riescono a venirne fuori e per questo vengono elogiati. Io rispetto i leader che vedono in anticipo la strada giusta e morale da seguire e convincono il popolo a unirsi a loro. Ariel Sharon non era uno di questi leader».

Massimiliano De Villa

 

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