Visioni

«Sulla infinitezza», lo sguardo senza speranza di Roy Andersson

«Sulla infinitezza», lo sguardo  senza speranza di Roy AnderssonUna scena da «Sulla infinitezza» di Roy Andersson

Al cinema Esce nelle sale il nuovo film del regista scedese, ma qualosa sembra aver smesso di funzionare nella sua creatività

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 8 ottobre 2020

Qualcosa ha smesso di funzionare nel mondo raccontato da Roy Andersson con Sulla infinitezza (Om det oändliga) Leone d’argento per la regia nel 2019, che aveva già conquistato il Leone d’oro con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) con momenti di puro divertimento per la sua sardonica fissità. Non che Sulla infinitezza non possieda una sua freddissima comicità, ma forse oggi c’è meno da ridere e nei locali, nelle strade, nelle metropolitane e nelle stanze da letto di Andersson i personaggi sembrano non avere più alcuna energia.

EPPURE da qualche parte deve essersi nascosta, come dice il primo principio della termodinamica citato nel film non a sproposito. Scarnificato al massimo, come tavole disegnate e appena in movimento, i suoi protagonisti senza emozione, senza attenzione al prossimo sono parte di un unico apologo sulla società, strisce di vita metropolitana contemporanea con l’anima dipinta a colori pastello.

SULLA CITTÀ in rovina fluttuano in volo due amanti, uno Chagall destrutturato, anemico, un volgere gli occhi non verso il vuoto come fanno per lo più i personaggi, ma verso il cielo, così come in chiave antibergmaniana un prete non si arrovella per i dubbi che gli mangiano l’anima, ma è perseguitato da incubi, tormentato dal pensiero di aver perso la fede. E nessuno ha tempo di dargli consigli, neanche lo psicanalista soprattutto perché «dobbiamo chiudere, tra poco passa il bus». Tutti hanno perso qualcosa in questo film che mette in scena la mancanza: di amore, di attenzione, di trasporto, di voglie, di solidarietà. Nei film di Andersson si mescolano personaggi del presente con quelli del passato, come il battaglione sconfitto in viaggio tra la neve verso la Siberia, scena anticipata nel montaggio dai fiocchi di neve che cadono placidi durante il Natale tra l’indifferenza suprema degli avventori del bar.
E forse una delle parti più ricche di pathos, se il termine è adatto a un regista come Andersson, è quando fa la sua comparsa in una stanza del bunker tra i quadri rubati e gli ufficiali ubriachi, Hitler in persona, un uomo che voleva conquistare il mondo, sconcertato per il suo fallimento con lo sguardo di chi ha perso l’ultimo metrò.

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