Alias

Sul filo della follia

Libri Simona Vinci "La prima verità" (Einaudi)

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 11 febbraio 2017

Il carattere scabro, ruvido e impervio delle isole greche ben si accorda con la scrittura di Simona Vinci, che ambienta il suo ultimo libro, La prima verità, a Leros, isola venuta alla ribalta della cronaca alla fine degli anni ’80 per aver ospitato un manicomio e insieme una prigione per detenuti politici al tempo dei colonnelli. Luogo quindi dell’emarginazione per eccellenza, dove il mondo conosciuto e il vissuto di molti ricoverati si è come dissolto nel tempo e nella memoria cancellandone l’esistenza, costringendoli in un modo o nell’altro a rimuovere il passato e a non intravedere il futuro se non nel ripetersi quotidiano di una vita che non gli appartiene e nel dilatarsi di un presente degradato. Un’isola, già di per sé, è un pezzo di terra circondato dal mare, che ad alcuni può dare un senso di claustrofobia. Concepire una struttura manicomiale in quel contesto significa creare un’emarginazione nell’emarginazione, un luogo disumano ai limiti del mondo, la cui assenza indeterminata ha il peso impalpabile e radicale della rimozione. Alla realtà di coloro che, emarginandoli, vogliono “cancellare” i diversi dalla società risponde infatti una cancellazione uguale e contraria del mondo da parte degli emarginati. Con un sottile spirito d’indagine e, al tempo stesso, gusto per l’invenzione, Simona Vinci è andata a reperire i rari frammenti che nonostante tutto, nello sperdimento degli anni e delle vicende, sono sopravvissuti a legare due mondi ostili e lontani, tenuti insieme da una narrazione ibrida e continuamente interrotta, attraversata da lampi di poesia, frantumata da squarci di “realtà” che pesano come macigni sulla trama sfuggente e lacerata delle storie. Ma la potenza del frammento – ed è spesso tramite frammenti che ci è giunta la letteratura greca nel tempo – è quella di far intuire tutto un mondo al di là di sé. Nel libro si avverte infatti l’eco di un’umanità anonima e lontana che non “si vede” ma si intuisce per brevi dettagli, quasi per indizi, e che, come nel lontanissimo spettacolo Marat/Sade di Peter Brook, fa da sfondo corale ai personaggi “esemplari” scelti per la narrazione: innanzitutto Nikolaus, il bimbo dal sasso in bocca e dallo sguardo refrattario alla traiettoria di altri sguardi, puntato lontano sul mare, fuori dell’isola; poi Teresa, la ragazza dalle forcine sparpagliate che per dormire cerca sempre riparo tra due muri, forse perché da tutto si sente minacciata; e ancora Basil, il religioso esaltato e represso; e infine Angela, la giovane ricercatrice che scopre i segreti e le storie dei ricoverati, e vive uno spinoso, enigmatico incontro lesbico con una coetanea italiana e greca. Al di là delle mura del manicomio, tra i detenuti politici, c’è poi il poeta Stephanos (personaggio ispirato alla figura letteraria di Ghiannis Ritsos), convinto della capacità rivoluzionaria e salvifica della parola, sempre alla ricerca di qualcosa su cui scrivere, che tende come frecce di un arco le sue composizioni verso destinatari sconosciuti. Ma nell’isola c’è anche una baracca dove le guardie torturano i prigionieri politici con il sadismo e la violenza del rozzo regime militare che ha oppresso la Grecia per più di dieci anni.
Il romanzo è un mosaico di caratteri e di storie sparsi nello spazio e nel tempo, difficili da comporre in un affresco organico senza togliere a qualcuno di essi la sua peculiarità, la sua importanza e il suo fascino. L’autrice riesce a farlo usando una struttura episodica e letterariamente eterogenea che mette a fuoco gli elementi salienti di ogni vicenda creando una polifonia di flash che non temono il silenzio e la distanza del tempo, che hanno il senso della misura e dell’accuratezza. Confesso che a una prima lettura il testo mi ha dato una sensazione di disorientamento e di difficoltà nel collegare le storie, ma continuando nella lettura mi sono accorta che proprio la discontinuità, le pause, come in una partitura musicale, danno al romanzo la sensazione del tempo trascorso tra una vicenda e l’altra (ma anche tra chi legge e i fatti narrati), quasi una terza dimensione rispetto alla scrittura.
Ed ho molto amato, nei personaggi femminili e nelle loro storie, l’attenzione al legame tra violenza sessuale e follia, assieme alla descrizione del non detto, perché impossibile a dirsi, nella quotidianità delle vite comuni, come quella di Teresa che, stuprata dal fratello, viene mandata in manicomio dalla famiglia, e, di nuovo tragicamente abusata, finisce con l’annegarsi, in una disperazione quieta e semincosciente. Perché, paradossalmente, spesso le tragedie femminili si consumano nel pudore e nel silenzio.
Il libro, frutto di otto anni di lavoro, ha riscosso molti consensi, verrà tradotto negli USA ed è stato premiato nel 2016 con il Campiello e il Volponi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento