Alias

Sul corso con Giò Stajano

Cartelli di strada «Gli uomini preferiscono le bionde» era il titolo di un musical di successo degli anni ’50, con protagonista una biondissima Marilyn Monroe. I capelli biondi, da sempre, donano fascino e […]

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 26 novembre 2016

«Gli uomini preferiscono le bionde» era il titolo di un musical di successo degli anni ’50, con protagonista una biondissima Marilyn Monroe. I capelli biondi, da sempre, donano fascino e rendono desiderabili le donne; d’altronde gli stessi uomini biondi suscitano ammirazione da parte della maggioranza castano-bruna. Ma se è più facile incontrare una donna bionda in strada, è quasi sempre il cinema (e lo spettacolo in genere) a offrire i modelli del maschio biondo. Eppure fino a tutto il decennio dei ’50 era piuttosto insolito sugli schermi un divo coi capelli gialli. Proprio come quelli, che vedevamo per la prima volta, di Peter O’Toole nelle vesti da emiro a capo delle tribù nomadi del deserto in «Lawrence d’Arabia» (1962). In seguito, il riferimento a cui ricorrevamo coincideva con la chioma ineguagliabile, per le inesauribili sfumature del colore oro, di Robert Redford. Quando ci veniva chiesto che cosa si avesse desiderato possedere nel proprio aspetto fisico, tenevamo la risposta pronta: i capelli biondi di Robert Redford. Oltre a O’Toole e a Redford che abbiamo invidiato (senza malanimo, ovviamente) al cinema, c’era un altro personaggio, all’epoca, certamente meno famoso dei primi due, che condivideva le scene della ribalta. La ribalta per il super-biondo Giò Stajano, alludiamo a lui, s’identificava nella sfrenata mondanità notturna della Roma di fine anni ’50. Da figura eclettica (pittore, scrittore, attore, giornalista, ma soprattutto irriducibile dissacratore dei costumi più inveterati), dopo il pediluvio con la pittrice Novella Parigini dentro la Barcaccia di piazza di Spagna, aveva ispirato Federico Fellini per la scena-cult nella Fontana di Trevi della «Dolce vita», pellicola in cui gli fu ritagliata una parte interpretando se stesso. Quei maglioni a girocollo alto che peraltro indossava, in omaggio all’opera felliniana, furono denominati alla «dolce vita». Non ci sembrava vero, in un tardo pomeriggio primaverile di metà anni ’60, d’incrociarlo sul corso principale della nostra città: Giò Stajano in persona, in completo beige con camicia candida sbottonata al collo e occhiali con lenti chiare, ci veniva incontro ciondoloni portandosi un’aria da intellettuale, biondo e solare come il dio Apollo. Emozionati e ansiosi nel farci notare, non trovammo di meglio che cacciare l’immancabile pacchetto delle Astor da dieci e chiedergli del fuoco: «Ha un cerino?». «No. Minerva», rispose risoluto. Alla sua battuta, già sfruttata a dire il vero (del resto, erano di quel tono le frasi di spirito che circolavano), ci si sciolse in una risata. Gli offrimmo una sigaretta, che accettò ma non accese, e quasi subito si allontanò giocherellando con la Astor fra le dita.

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