Liliana Cano, «Il bosco», 1999
Liliana Cano, «Il bosco», 1999
Alias Domenica

Sul ballatoio di Walter Siti, due mondi inconciliabili

Scrittori italiani «I figli sono finiti», da Rizzoli
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 19 maggio 2024

Due diverse diramazioni narrative del lavoro di Walter Siti sembrano trovare una qualche maturazione  incarnandosi nei protagonisti, Augusto e Astòre, del suo ultimo romanzo, I figli sono finiti (Rizzoli, pp. 288, € 20,00), legati tra loro da una serie di specularità tematiche e di correlazioni stilistiche che ne fanno i poli magnetici di una medesima carica. Lontanissimi per dati anagrafici, formazione, linguaggio, Augusto e Astòre pur respingendosi si sentono al tempo stesso «due risposte sbagliate alla medesima domanda». La loro opposizione trova una prima sintesi spaziale nella specularità delle abitazioni: le porte dei rispettivi appartamenti (l’uno identico all’altro, «solo rovesciato di centottanta gradi, a specchio») si guardano, sullo stesso pianerottolo.

Da un lato, Augusto, professore di francese in pensione, che dopo la morte del proprio compagno Vincenzo si rinchiude in una casa del centro di Milano, dove si dedica alla frequentazione di un culturista rintracciato online, Franco Canepari, «una montagna di neve rosata … gli occhi chiarissimi e il naso piccolo, i capelli biondi tosati alti sulla nuca quasi a cresta». Chi abbia familiarità con la narrativa di Siti non stenterà a riconoscere in Franco, in virtù della tensione allegorica di cui si caricano le descrizioni legate al suo corpo, uno dei «nudi maschili» dell’esordio, erede senile di una antica schiera di personaggi, cinici e in fondo nichilisti.

Dall’altro lato del pianerottolo,  si è trasferito Astòre, ventenne di famiglia borghese e disfunzionale, anche lui traumatizzato  (dalla morte della madre a seguito di un incidente stradale) e anche lui recluso in casa per scelta: «uno che non può uscire e l’altro che non vuole».

La sua piena fiducia postadolescenziale, forse ingenua e comunque sincera, nelle applicazioni della tecnologia postumane – unica strada, ai suoi occhi, per consentire la sopravvivenza della specie (o di ciò che ne sarà: «non rivoluzione, mutazione» –non impedisce al suo inconscio di farsi largo attraverso le più classiche vie del sogno e delle associazioni significanti, che nel ribadire la propria appartenenza inequivocabile alla specie umana, naturalmente lo irritano. Nonostante il suo slancio verso un futuro di ibridazione tecnologica, Astore è un personaggio tragico, còlto in più occasioni dall’autore nella sua disperata ricerca del proprio nomos, della propria verità singolare: «minuscolo Edipo su una strada deserta, senza crocicchi e senza oracoli».

La derivazione tragica e la giovane età (è il primo ventenne esaminato narrativamente tanto a fondo dall’autore) fanno di Astore un protagonista della seconda e più recente ramificazione della scrittura di Siti, che supera il ripiegamento egotico per interrogare il presente, con domande dure e implacabili: la sua intelligenza precoce ricorda quella di Andrea, il bambino di Bruciare tutto (2018), e i tormenti della sua coscienza rimandano a Filippo, il matricida di La natura è innocente (2020).

Nel confronto polemico tra Augusto e Astore, che erompe sulla pagina come un’animosa contrapposizione tra due visioni del mondo opposte e tra due linguaggi quasi incommensurabili, sta la tutta la forza del romanzo. L’ex professore ha un’espressione imbevuta di cultura umanistica novecentesca, perlopiù francese e letteraria, che in fondo già conosciamo nella scrittura di Siti; il giovane, di contro, ha in bocca uno slang giovanile rapido e post-ironico, ricco di anglicismi e di lessico tecnico-informatico: ricava aforismi dal rap contemporaneo e considera la letteratura «un mito in scadenza».

Per organizzare due parlate così contrapposte, laddove la parola non è ceduta direttamente a uno dei due, il narratore sceglie il discorso indiretto libero e mescola così la propria voce a quella di Augusto e Astore, evitando tuttavia di rifarsi a un qualche principio di concertazione, tanto che i poli del conflitto non trovano mai un punto di equilibrio pacificato. Al contrario, la frizione stilistica è sempre evidente e ribadita dal discorso metalinguistico autoriale in periodi parentetici o in nota. Anche laddove è presente una qualche formazione di compromesso, la scrittura non manca di segnalarla, mettendola in evidenza con formulazioni ironiche. Per esempio quando, a commento del francesismo «barbiche», il narratore glossa in nota: «Astore preferirebbe “pizzetto” ma è il lessico di Augusto e lui non può averle tutte vinte».

La poetica realista di Siti giunge, con I figli sono finiti, a una forma di straniamento inedita: attingendo a uno stile diviso tra la provenienza letteraria classica e quella dalla tecnologia della virtualità, mette  in scena il trionfo di una prosa che, in ultima analisi, nega la realtà. E provoca un conflitto esiziale tra stile e poetica,  che permette alla scrittura di affacciarsi su un realismo senza realtà: ciò che Siti, nella sua opera, teme e al tempo stesso insegue da sempre.

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