Suite Armoricaine, detour in Bretagna verso il futuro
Cinema Il film di Pascale Breton presentato a Locarno arriva sugli schermi italiani
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Suite Armoricaine è il titolo del film di Pascale Breton, cineasta francese indipendente e appartata (nonostante un César). Era in concorso all’ultimo festival di Locarno, e ora si ha occasione di vederlo nelle rassegne che portano in giro per l’Italia alcuni dei film di quel festival (a Milano il 26 www.lombardiaspettacolo.com/). La storia è intima e insieme muove una memoria comune, riguarda la lingua, il passato, e l’identità di una parte della Francia, i bretoni. Protagonista è una giovane donna, Françoise (Valérie Dréville) che torna a Rennes per insegnare storia dell’arte nell’università dove ha studiato, la stessa che negli anni ottanta frequentava la regista.
I passi di Françoise sfiorano quelli di Ion, uno studente misterioso e affascinante innamorato di Lydie studentessa cieca e sensibile. Ion finge per vergogna che sua madre Moon (Elina Lowensohn) sia morta, ma lei alcolista e homeless riappare continuamente sul set della sua vita. In mezzo a loro c’è l’arte in cui Françoise cerca rifugio (l’apertura con l’Arcadia e Paolo Uccello) per un personalissimo tentativo di oblio e di autoaffermazione. E poi la musica, elemento di definizione dei rapporti che furono e quelli che sono; più forte dell’oblio. Infine c’è la Bretagna, la reale Arcadia, con la sua natura, i suoi rituali e la sua lingua. Il ruscello che Françoise ha reso invisibile nella sua memoria e che attende di essere visitato,ha il valore della «madeleine», l’unico spazio in cui è possibile ritrovare un tempo. Il cortocircuito è compiuto, resta solo il viaggio.
È proprio il rapporto con l’identità bretone a mettere in crisi il personaggio di Françoise, perchè l’arte (ed in particolare il cinema) ci insegna che ogni tentativo di rimozione è sentimentalmente provvisorio, nel momento in cui un simbolo o una corrispondenza possono far riemergere tutto. La coscienza di Françoise, e di Breton in questo caso, paiono venire a galla come una vecchia fotografia analogica immersa in un bagno di colore; con lo spiegarsi della storia e della narrazione i contorni si fanno più vivi e decisi, le ombre si fissano sulla carta e riacquistano una definizione. Da una parte basta un’intervista (sulla lingua ed i rituali, all’istituto di studi bretoni) per rimettere in discussione tutto, dall’altra la comparsa di Ion e la decisione di provare finalmente con il ragazzo quel viaggio; lei senza più il marito, lui senza la madre: un detour verso il nord-ovest di Francia, qualcosa cambia per sempre, qualcosa muore per rinascere.
A tratti la narrazione si blocca, cambia repentinamente il punto di vista, per la necessità stessa che ha questa storia di perdersi continuamente nelle fratture della vita, per ritrovare il proprio senso.
Cosa è dunque la Suite Armoricaine? Un percorso spirituale dal forte senso linguistico in cui la riappropriazione della memoria non è altro che la possibilità di crescita, di un nuovo punto di vista sul caos del mondo e nei margini dei ricordi. Basta un movimento di macchina, uno sguardo sugli alberi ed ecco riapparire il ruscello, la porta di casa, il nonno guaritore.
L’ellissi finale è definitiva, e chiude un film che a stento riesce ad aprirsi, e che nella sua durata definisce con estrema sincerità il rapporto della regista con le sue radici e la sua visione dell’arte. Elementi estranei, in passato entrambi visti come forma esterna di rimozione ed esperienze fallaci, ora finalmente appartenenti ad una nuova coscienza, quella di Francoise/Pascale, che sa accettare il passato per guardare il futuro.
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