Hollywood, interno giorno, Joe’s Pizza. Il locale, di quelli che lavorano per il 90% con l’asporto via app, non ha molte pretese, 2 tavoli ed un bancone, ed è deserto. Sul retro si intravede un unico dipendente indaffarato ai forni. «Avete tranci?» la domanda va ripetuta due volte prima che l’uomo alzi gli occhi e faccia cenno alla console con schermo posta sul bancone. «Deve parlare con lei..io le cuocio e basta». «Lei» sarebbe il chiosco self-service sul cui schermo lampeggiano menu ed istruzioni per scelta e pagamento – solo Pos. Il siparietto della pizzeria ad elevata automazione denota quella che è rapidamente diventata la norma in un numero sempre maggiore di esercizi di ristoro. Dopo l’accelerazione impressa dalla pandemia, la ristorazione no human sta per fare un altro salto in avanti.

Da questa settimana in California è entrata in vigore la legge (AB 1228) che fissa a 20 dollari il salario minimo dei dipendenti dei fast food. Anche se il salario sindacale federale è ancora di 7,25 dollari l’ora, in 43 stati e molte amministrazioni locali quel minimo è da tempo superato. In California era già di 15 dollari l’ora. La retribuzione media nei fast food – settore che nello stato impiega 540.000 lavoratori, era di 500 dollari a settimana. 2000 dollari al mese non sembrano pochi visti dall’Europa fin quando non si considera il costo della vita, che per un individuo singolo nella media delle 99 principali città americane è di 99.933 dollari all’anno (secondo la formula ideale 50/30/20 che considera il 50% per spese necessarie, 30% per spese discrezionali e 20% di risparmi). Per la maggior parte delle persone si tratta di fantascienza. Di certo per i lavoratori del fast food, che anche con l’aumento sindacale giungeranno, sì e no, ad un terzo del reddito necessario. Senza contare che le città californiane, come costi, sulla media sforano tutte (San Francisco 119.000 dollari, San Diego 122.000, Long Beach 114.000, Los Angeles 110.000), soprattutto per effetto dei prezzi esorbitanti degli affitti (2345 dollari in media).

Il settore fast food è regolarmente in fondo alle classifiche della retribuzione, un comparto storicamente fondato sull’ingaggio di lavoratori giovani e giovanissimi, tipo studenti assunti part-time, ma che di recente utilizza sempre più una forza lavoro, spesso immigrata, di capi famiglia e persone che sui magri stipendi una famiglia la deve mantenere.  Attorno ai marchi che dominano il settore – McDonalds, Jack in The Box,  Kfc, Wendy’s  – e le grandi corporation che le controllano, si è quindi sviluppata una vasta economia del lavoro precario e di lavoratori poveri, la cui condizione non è migliorata pur dopo la glorificazione come «lavoratori essenziali». L’aumento californiano è frutto di una mobilitazione sindacale (California fast food workers union) che da qualche anno ha organizzato lavoratori di settore, indicendo scioperi ed ottenendo aumenti salariali e l’istituzione del Fast Food Council, composto di lavoratori  e rappresentanti delle proprietà per mediare vertenze sotto il patrocinio del governo.

La legge 1228 è stata frutto di questa mobilitazione ma l’entrata in vigore rischia ora di provocare un’ondata di licenziamenti, diminuzione delle ore di lavoro e accelerazione dell’automazione. Appena dopo la ratifica del governatore, la catena Pizza Hut ha ad esempio annunciato il licenziamento di più di 1100 autisti per le consegne. L’industria fast è basata sul franchising, con i singoli punti vendita appartenenti a gestori che si trovano spesso anche loro fra l’incudine e il martello dei gruppi che con la licenza, impongono regole, prezzi e modalità di gestione, dai turni ai menu. Tutte le aziende hanno annunciato l’intenzione di passare l’aumento del costo del lavoro ai clienti. La Chipotle, marchio di fast food messicano, ha annunciato incrementi sul menu fino al 10%.

Si tratta di rincari che paradossalmente ricadranno in gran parte sui ceti che compongono maggiormente sia clienti che lavoratori del fast food, i settori meno abbienti e disagiati per cui il cibo da asporto di bassa qualità rappresenta una componente sostanziale della dieta. Il modello replica quello della maxi-distribuzione, come WalMart e Target, che mirano la propria mercanzia low cost agli stessi ceti da cui provengono la gran parte degli impiegati sottopagati. Col fast food la dinamica è evidente anche dalla dislocazione dei punti vendita nella geografia urbana della città, sempre più densa nei quartieri working class e di minoranze etniche. Nai barrios ispanici, ad esempio, e nei ghetti afro americani, noti come food deserts, zone urbane dove non sono disponibili alimentari o supermercati, ma dove il territorio è disseminato di spacci fast food e liquor store per la vendita di alcolici.

Questo “razzismo alimentare” fu una principale rivendicazione già all’epoca delle rivolte del 1992 di Los Angeles, ma la situazione non è fondamentalmente cambiata, con una segregazione semmai ancor più accentuata fra un “food” elitista, ed un’alimentazione industriale sottocosto, di bassa qualità. La diseguaglianza nutrizionale è rimasta un principale indicatore socioeconomico (con annesse problematiche epidemiologiche).

La legge californiana rappresenta il tentativo di intervenire su uno dei  fattori  in questa equazione di povertà – la qualità del lavoro. La reazione indica invece la forte resistenza delle grandi catene ad avvicinare la retribuzione a livelli dignitosi. Per evitarlo, l’industria punta anche sull’automazione, ed uno dei sintomi sono il numero sempre maggiore di robot per le consegne che solcano le strade delle città americane. L’esercito di rider addetti alle consegne a domicilio (in una città come Los Angeles, rappresentano in media il 60% del volume dei ristoranti) sono in procinto di essere sostituiti dagli ubiqui carrelli semoventi a quattro ruote che portano a destinazione le ordinazioni. Si tratta di scaldavivande su quattro ruote, piccoli robot semoventi in grado di evitare ostacoli e attraversare strade fino a giungere agli indirizzi dei destinatari. Alcuni sono muniti di navigazione autonoma, mentre altri sono teleguidati remotamente via console da videogioco da una nuova categoria: piloti di robot alimentari che lavorano in remoto davanti a schermi su cui scorrono le immagini delle telecamere di bordo.

Sulla stessa Western avenue di Joe’s Pizza, opera una cloud kitchen, una modalità di ristoro che nasce direttamente da internet. Si tratta di strutture che ospitano numerose cucine di ristoranti che non hanno locali fisici, tavoli o clienti in presenza, ma soddisfano unicamente ordinazioni effettuate via app, spedite a domicilio a clienti. Quella su Western avenue ha un lungo corridoio su cui si affacciano una dozzina di porte di cucine invisibili, ed all’esterno un gran via vai di fattorini che aspettano pasti da consegnare. Da qualche tempo però è sempre più lunga anche la fila di robo-cart parcheggiati sul marciapiede. In California ce ne sono in servizio ormai migliaia, solo quelli prodotti dalla Serve Robotics, coi loro fari simili ad occhi di un personaggio anime o Wall-E, sono più di duemila, ognuno destinato a spodestare un lavoratore umano. Attorno ai panini ed al pollo fritto, si gioca insomma una partita importante sui modelli di produzione e ristorazione di era tecno-capitalista. Un futuro già presente, che rimanda immagini di una industrializzazione sempre meno “umana” sia per lavoratori che i consumatori.