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Sui migranti, l’accordo con Tripoli va rispedito al mittente

Il posto sicuro Una parte delle forze di maggioranza si oppone al rinnovo dell’accordo con la Libia, che l’ex ministro Minniti, autore della trattativa, invece vorrebbe replicare

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 23 ottobre 2019

Nella primavera-estate del 2017 si verificò una drastica riduzione dei tragici traghettamenti di migranti, in partenza dalle coste libiche, ma a caro prezzo. Da quel momento, i naufraghi hanno manifestato un timore di essere consegnati alla guardia costiera libica pari o superiore a quello di combattere il mare che stava per inghiottirli.

Perché il ritorno il Libia li avrebbe consegnati, o riconsegnati, a quella galleria degli orrori che è tuttora in atto, nella forma di campi di concentramento che sfuggono ad ogni controllo delle Nazioni Unite.

A questo proposito, sconcertante l’intervista di Marco Minniti a La Repubblica (19 ottobre), malgrado le domande doverosamente dialettiche di Giovanna Casadio. Il messaggio è tutto nel titolo: “L’accordo con la Libia va rinnovato o la situazione precipiterà”. Si tratta dell’accordo sottoscritto dall’Italia, e poi approvato dall’Ue, con cui essa s’impegna, tra l’altro, a privilegiare la guardia costiera libica, addestrata a nostre spese, nel determinare il destino degli migranti sopravvissuti nelle acque del Mediterraneo.

Perché siano restituiti al porto libico tuttora dichiarato “insicuro” dalle competenti organizzazioni internazionali.
Una parte, ma non tutta la maggioranza governativa si oppone giustamente al rinnovo di quell’accordo stipulato con il governo di Tripoli, previsto in un comma surrettiziamente inserito in un provvedimento di altra natura.

Non così Minniti, padre (in quanto allora ministro dell’Interno del governo Gentiloni) di quel frutto della trattativa da lui condotta, e conclusa con la rete degli scafisti, adibiti a guardiani di campi di concentramento libici, ad oggi dichiarati inaccessibili dall’Unhcr e dall’Oim.

A suo tempo un editoriale del New York Times (25 settembre 2017) imputò all’Italia, e in una precedente inchiesta (Nyt, 17 settembre 2017) a Minniti, la responsabilità di “essersi collocata nel ruolo di chi assume come sorveglianti [dei campi di concentramento] la stessa gente che trae profitto dall’estorcere denaro, affamare, vendere come schiavi, torturare e stuprare migranti”.

Persino l’allora vice ministro degli esteri, Mario Giro, interrogato dal medesimo giornale, se i servizi segreti italiani avessero retribuito quella rete di gentiluomini, seppe soltanto rispondere: “Non posso parlare a nome di altri, ma lo escluderei”. Lo stesso governo, che precedentemente aveva sottoposto le navi delle Ong impegnate nei salvataggi, non ebbe modo di rintuzzare le severissime dichiarazioni degli alti commissari per i diritti umani del Consiglio d’Europa e dell’Onu.

Successivamente, Salvini si attribuì il “merito” di quella politica, rincarando la dose con la chiusura dei porti italiani.

Una macchia che annullò il credito internazionale conquistato dalla nostra guardia costiera – ricordo bene le parole lusinghiere spese nei confronti dell’Italia, dal vice segretario generale dell’Onu, Jan Eliasson, in una fase antecedente -‘ per la professionalità e il coraggio dimostrato nel salvataggio di numerose vite umane.

E che l’attuale governo potrebbe in parte cancellare, ponendo come condizione per un nuovo accordo la collocazione di quei campi sotto l’egida dell’Alto Commissariato per i rifugiati (Unhcr) e dell’Oim, e l’apertura di canali garantiti di accesso all’Europa per gli aventi diritto d’asilo. Un obiettivo oggi più a portata di mano per la solidarietà internazionale che potrebbe raccogliere e per la relativa debolezza delle fazioni armate libiche. Ecco un altro banco di prova che il governo Conte dovrà affrontare prossimamente.

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