Alcuni dei più importanti esperimenti che segnano la nascita di una improvvisazione peculiarmente europea avvengono in Gran Bretagna fra il 1963 e il 1965, e oltremanica nel corso del decennio la scena del nuovo jazz e della free music è effervescente: ma nei primi anni settanta questi ambiti continuano ad essere scarsissimamente sostenuti dalla stampa e dalla radio, e ignorati dalle case discografiche. Da qui l’idea di mettere in circolazione in maniera indipendente degli album, per dare visibilità alla musica, per darle la possibilità di – letteralmente – essere ascoltata. Nel ‘73 John Jack e il pianista Mike Westbrook, uno dei più talentuosi protagonisti della nuova musica inglese dell’epoca, fondano la Cadillac Records. A ruota, nel ‘74 esordisce la Ogun, creata dal contrabbassista Harry Miller e da sua moglie Hazel. Nato a Johannesburg nel ‘41, Miller è arrivato a Londra nei primi anni sessanta con il tastierista Manfred Mann – cofondatore alla fine dei cinquanta di uno dei primi gruppi di rock’n’roll del Sudafrica – dal quale è stato introdotto al jazz e alla musica neroamericana; Miller ha poi solidarizzato con i Blue Notes, i giovani sudafricani che, invitati nel ‘64 al prestigioso festival di Antibes, hanno scelto l’esilio dal Sudafrica dell’apartheid e nel ‘65 sono approdati a Londra. Intenti comuni, difficoltà enormi, e per decenni Cadillac e Ogun collaborano fra loro, in particolare sul piano della distribuzione.

È PASSATO mezzo secolo: Harry Miller è morto nel 1983 in un incidente d’auto, e la Ogun è stata portata avanti da Hazel Miller; John Jack è mancato nel 2017, ma la Cadillac continua col suo amico Mike Gavin, che da qualche anno – da quando Hazel Miller si è ritirata fuori Londra – si occupa anche della Ogun. Giovedì 28 settembre Mike Westbrook, Hazel Miller, Mike Gavin si sono ritrovati al Café Oto, piccolo-grande tempio londinese dell’improvvisazione e delle musiche d’avanguardia, per festeggiare assieme a tanti amici cinquant’anni di insostituibile attività delle due etichette.Al Café Oto jam session, live set e la proiezione di «The Real McGregor» realizzato nel 1967 da Ian Hutchinson
Alla fine del 1966 il Ronnie Scott’s Jazz Club, aperto nel ’59, si trasferisce dalla sede originaria in Gerrard Street ad una nuova sede dove è tutt’ora attivo: in attesa della scadenza del contratto d’affitto, Scott e Pete King, altro musicista che gestisce il club con lui, decidono di tenere aperta la vecchia sede, sotto l’insegna Old Place, come spazio per il jazz londinese emergente, per i giovani, per le nuove formazioni. Alla testa di compagini orchestrali, Westbrook fa epoca suonando nell’arco di un anno e mezzo praticamente tutte le domeniche, da mezzanotte all’alba, fino alla fine dell’epopea dell’Old Place nel maggio del ‘68. Ma all’Old Place fanno epoca anche i Blue Notes: è all’Old Place che i musicisti inglesi si innamorano dell’energia e del bagaglio di melodie e ritmi dei giovani sudafricani, è lì che avviene la fusione tra la più audace improvvisazione britannica e la branca europea della diaspora jazzistica sudafricana, ed è partecipando alle jam session di massa dell’Old Place che il pianista Chris McGregor, l’unico bianco dei Blue Notes, ha l’intuizione che nel ‘69 lo porterà a dare vita ad una radicale esperienza orchestrale, la Brotherhood of Breath: un magnifico live della Brotherhood a Willisau sarà nel ‘74 l’esordio della Ogun.

Mike Westbrook e Chris Biscoe foto di Riccardo Bergerone

LA SERATA celebrativa al Café Oto è stata aperta da The Real McGregor, un emozionante film, realizzato nel ‘67 da Ian Hutchinson e appena restaurato da Paul Moody, che dopo un’intervista con McGregor documenta un’esibizione appunto del ‘67 dei Blue Notes all’Old Place: McGregor al piano, Dudu Pukwana al sax alto, Mongezi Feza alla tromba, Johnny Dyani al contrabbasso e Louis Moholo alla batteria, e con loro anche Ronnie Beer, sax tenore bianco, uno dei migliori jazzisti sudafricani, presente nella big band riunita nel ‘63 da McGregor a Johannesburg che incise la pietra miliare del jazz sudafricano Jazz: the African Sound. Il film restituisce un free jazz espressionista e furibondo, con Feza come centroavanti di sfondamento, una musica in cui si avverte l’orgasmatica rivendicazione di libertà di chi si è sottratto al giogo di un apartheid che però in Sudafrica continua ad opprimere un popolo: è una testimonianza preziosissima, anche perché, a fronte della straordinaria importanza dei Blue Notes, filmati che ce li mostrino dal vivo sono una rarità.

A 87 ANNI la passione per la musica di Mike Westbrook è ancora quella dei vecchi tempi dell’Old Place: ha ancora un bel tocco, e con Chris Biscoe, amico di una vita, sax alto, si è esibito in un elegante duo. Poi, con una festosa suite finale, un settetto comprendente veterani dei gruppi di Moholo ma anche il nostro Roberto Ottaviano, ha reso omaggio al batterista, dal ‘90 unico sopravvissuto dei Blue Notes.
Nel 2004 Moholo è tornato a vivere a Langa, la township di Cape Town dove è nato: quattro anni fa si è ritirato dall’attività, ma attraverso i musicisti che hanno lavorato con lui e i suoi dischi pubblicati dalla Ogun il suo magistero è sempre vivo. Al Café Oto c’è al flicorno Claude Deppa, al sax alto Jason Yarde, sempre al sax alto Ntshuks Bonga, al piano Alexander Hawkins; qui al soprano, Ottaviano è stato accanto a Moholo in omaggi alla diaspora sudafricana realizzati in Italia, che dai settanta è stata sempre sensibile alla vicenda musicale e umana dei Blue Notes: e una nuova celebrazione in Italia dei Blue Notes è probabile per il prossimo anno.