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Sud Sudan, la pace può attendere

Sud Sudan, la pace può attendereTruppe governative a Juba – Reuters

Flop Salta ancor prima di cominciare, in Etiopia, il negoziato tra governo e ribelli. Lo scontro tra Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar prosegue sul campo. Cresce l'imbarazzo della Casa bianca e la preoccupazione della Cina, principale investitore nel Paese

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 5 gennaio 2014

Non decollano i negoziati di pace tra il governo del Presidente del Sud Sudan Salva Kiir e i ribelli fedeli all’ex vice presidente Riek Machar deposto nel luglio scorso e ora accusato di un tentativo di colpo di stato. Delegazioni di ambo le parti hanno tenuto colloqui unilaterali con i mediatori dell’Intergovernmental Authority on Development (Igad) rinviando un faccia a faccia diretto atteso per ieri ad Addis Abeba, in Etiopia.

Una falsa partenza che aumenta le notti insonni dell’amministrazione Obama e di Pechino, che attraverso i colossi di proprietà statale – il China National Petroleum Corp (Cnpc) e il Sinopec – rappresenta il maggiore investitore e sfruttatore delle risorse petrolifere del Sud Sudan.

Un inferno, quello partito da Juba intorno al 15 dicembre del vecchio anno che, facendo implodere vecchi e mai risolti attriti politici tra le fazioni opposte di Salva Kiir e Riek Machar, ha finito con lo scoperchiare tutte le fragilità e le contraddizioni di uno Stato fantoccio nato, con il forte sostegno dell’amministrazione di G. W. Bush, staccandosi con il referendum del 2011 dal Sudan, con cui continua a condividere i mali atavici tra cui quelli della repressione e demonizzazione delle forze politiche di opposizione, della corruzione, della povertà e della mancanza delle infrastrutture di base. All’ombra soprattutto degli Stati Uniti e dei suoi grossi e grassi interessi petroliferi.

Mille morti e circa 200 mila sfollati nel giro di venti giorni sono l’output di una carneficina che non accenna a fermarsi e rischia di fare del Sud Sudan, da creatura all’occhiello della diplomazia statunitense, un profondo buco nero per Obama chiamato a evitare quello che ha tutti i presupposti di diventare il più clamoroso fallimento della politica statunitense in Africa, sullo sfondo di un genocidio e moria etnica di grosse proporzioni giusto dietro la porta.

Tra l’eco di raffiche di fuoco che continuano senza sosta da metà dicembre e le urla silenziate di civili vittime di esecuzioni sommarie e i pianti atroci dei bambini che muoiono di fame e delle donne stuprate, va in onda l’annaspare di una Casa Bianca in panne che mentre da un lato minaccia di tagliare gli aiuti, vitali, per il più giovane staterello della costellazione africana e di sospendere il supporto logistico alle sue inesperte forze militari, dall’altro – mentre continuano le operazioni di evacuazione della sua ambasciata e delle centinaia di cittadini americani su suolo di guerra – non esita a stanziare circa 49 milioni di dollari in aiuti umanitari nel tentativo di scongiurare la tragicommedia del suo inizio d’anno e prendere tempo per concordare una linea politica d’intervento. Prima di ovviare, panacea di ogni debacle politica, in quella esclusivamente militare.

Contraddizioni di tempi di guerra che in questo caso sbiadiscono almeno un po’ l’immagine del carrozzone di Washington, mentre le delegazioni delle parti in conflitto giocano a negoziare combattendosi al fronte per guadagnare una posizione di forza al tavolo della pace.

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