Suburra, i re di Roma ma non per fiction
Cinema e realtà Il film di Stefano Sollima agli albori di mafia capitale. Nella zona più scura e reale della città eterna, le guerre fra bande e le intercettazioni. E i fascisti ovunque
Cinema e realtà Il film di Stefano Sollima agli albori di mafia capitale. Nella zona più scura e reale della città eterna, le guerre fra bande e le intercettazioni. E i fascisti ovunque
«Eh, cazzo». Cosa abbiamo vissuto e cosa stiamo vivendo realmente in questi ultimi anni a Roma? Oggi, con Marino che si è dimesso da sindaco, ma, calma, può sempre tornare, e soprattutto in quel non così lontano novembre del 2011 che ha visto un Papa dimettersi, il governo Berlusconi cadere per sempre, ma, calma, può sempre tornare, e una città che si è aperta poco dopo come una fogna portando a galla gli orrori e lo schifo di mafia capitale, la connivenza tra potere politico e potere malavitoso, le guerre tra bande e famiglie rivali, i Casamonica, Carminati, le gang del Porto di Ostia, le intercettazioni più assurde, la teoria della Terra di Mezzo. E i fascisti ovunque.
Basterebbe la celtica al collo dell’onorevole di centro destra interpretato da Pier Francesco Favino mentre pippa e tromba all’Hotel de Russie con due mignotte e poi va a pisciare dalla terrazza mentre la pioggia si abbatte su Piazza del Popolo per fare di Suburra di Stefano Sollima, tratto dal romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, che lo hanno sceneggiato assieme a Sandro Petraglia e Stefano Rulli, il film dell’anno.
O almeno un film, diciamo di fiction, dove però i fatti e i personaggi non sono proprio fiction, ma si avvicinano molto a quello che probabilmente è capitato e capita nella realtà in questa città. Non siamo in un talk politico, con i vari Formigli-Santoro-Gruber-Giannini che sembrano ormai raccontare una realtà politica e una realtà italiana che non ci rappresenta. Siamo nel pieno di un cinema-non-cinema che mischia i vecchi noir di Fernando Di Leo con le nuove serie, con True Detective e Gomorra, passando attraverso la scrittura di Rulli e Petraglia come nelle loro Piovre televisive.
E Sollima è il regista italiano che più si avvicina alla nuova messa in scena da Netflix, la nostra risposta a Cary Fukunaga, moderno e politico quanto basta. Ma già questo, per il nostro mondo dello spettacolo, è qualcosa di inaspettato e debordante. E altamente popolare e riconoscibile. Grazie a questa messa in scena e a questa scrittura da altissima fiction, nuova ma rispettosa dei vecchi codici di genere, Suburra riesce a farci penetrare con personaggi mitizzati e solo ispirati alla realtà, che siano gli onorevoli della destra di governo, il Samurai, Spadino, Bacarozzo, Numero 8, gli zingari cravattari, nella zona più scura e reale della città e della vita italiana.
Non è il mondo di Cafonal, con intellettuali falliti, sbroccati e pippati ripreso da Paolo Sorrentino ne La grande bellezza, il mondo delle feste. Non è il mondo di «Porta a Porta», anche se a un certo punto si sente la voce di Bruno Vespa. Non è, per fortuna, neanche quello delle cronache politiche di Repubblica e del Fatto, con le trascrizioni delle intercettazioni hot e le foto mostruose delle feste spaccone dei fasci di potere dell’epoca Alemanno. E infine neanche quello del cinema medio italiano, sia questo quello modesto delle commedie sia quello poco più blasonato del cinema da festival, che come sappiamo si divide in serie A, chi va a Cannes, e serie B, chi va a Venezia.
Sollima dribbla abilmente le trappole del «cosa siamo abituati a vedere e a sentire» legato alla politica sporca da sotto Vespa e alla cronaca-de-Roma giornalistico e trova rifugio nel genere classico e nel nuovo genere delle fiction seriale alla Sky per poter fare finalmente il suo film e arrivare a qualcosa di concreto e, in fondo, non visto.
Perché, anche se ci sono dei punti di contatto sia con Sorrentino che con il mondo tossico della Ostia anni’90 di Claudio Caligari, il suo film riprende questi elementi, come riprende i volti di un cinema popolare e ben noto, Claudio Amendola, Elio Germano, Favino, un incredibile Antonello Fassari, per costruire un racconto che ci deve portare verso una zona nuova sia per il cinema italiano sia per la cronaca più verosimile della realtà italiana.
Come se Amendola o Favino, insomma, fossero elementi della classicità della città e del nostro cinema, da inserire con volti nuovi, come Alessandro Borghi, Greta Scarano, l’incredibile attore che interpreta Manfredi lo zingaro. Ma l’idea è sempre quella di arrivare, un po’ come in Romanzo popolare, sia serie che film, a un racconto popolare che ci spieghi dal di dentro questa città e quello che ha vissuto e che sta ancora vivendo.
E nessun regista italiano sembra in grado come Sollima di raccontare così da vicino Roma, e questo incredibile impasto di vita politica e di malavita.
Come se soltanto attraverso il genere fosse possibile arrivare alla realtà.
Sappiamo da tempo che niente al cinema o in tv è così forte come la faccia di Carminati, le sue intercettazioni, i disastri provocati dagli ultimi sindaci. Eppure Sollima, i suoi sceneggiatori, i suoi attori, proprio tradendo il più possibile la realtà, la morale cronachistica e moralistica da Repubblica, ripescando i vecchi Ugo Piazza di DiLeiana memoria arriva in due ore a raccontarci molto di più di quanto potessimo pensare. Con coraggio.
A cominciare da come inquadra bene il potere politico di questi ultimi anni legato ai fascisti romani. E con qualche concessione al mondo antagonista che può piacerci anche parecchio.
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