Cultura

Subalternità e ricerca, ricognizioni collettive discusse politicamente

Subalternità e ricerca, ricognizioni collettive discusse politicamenteSharon Louden, «Windows», un’installazione allestita all’Art Museum dell’Università del Wyoming

Scaffale «L’accademia e il fuori. Il problema dell’intellettuale specializzato in Italia», un saggio edito da Orthotes. Tredici lavoratori, con condizioni contrattuali e di reddito differenziate, si sono chiesti cosa vuol dire essere oggi un intellettuale accademico nel rapporto con la società

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 6 gennaio 2024

Aria fresca, finestre spalancate, fiumi che scorrono. Sono queste le sensazioni che suscita la lettura e il confronto con L’accademia e il fuori. Il problema dell’intellettuale specializzato in Italia, libro coordinato da Vincenzo Mele, Fabio Mengali, Francesco Padovano e Alessia Tortolini e pubblicato nella collana di «Ecologia politica» dell’editrice Orthotes (pp. 268, euro 23). «Finalmente»: è l’avverbio che viene in mente fin dalla prima pagina.

Tredici «lavoratori accademici», con condizioni contrattuali e di reddito differenziate, in ampia parte precari e precarie, si sono chiesti – prima in un convegno tenuto presso l’Università di Pisa nel 2022 e poi con questo volume – cosa vuol dire essere oggi un intellettuale accademico nel rapporto con la società. E si sono posti questa domanda guardando al contesto italiano, in collegamento con le più generali trasformazioni intervenute nell’accademia internazionale, sapendo che «l’università è cambiata in quanto è cambiata la società».

IL TESTO È ORGANIZZATO in tre parti. La prima – «Distanza e vicinanza», con i contributi di Tiziana Faitini, Achille Zarlenga, Alessandro Fiorillo e Francesco Padovani – discute la figura dell’intellettuale contemporaneo in connessione con le analisi di Max Weber e Michel Foucault, la rilettura del percorso scientifico-militante di Franco Basaglia, la sterilizzazione accademica di Pier Paolo Pasolini e la riflessione sulle possibilità di intervento pubblico degli intellettuali.

La seconda parte – «Il dentro», con gli interventi di Fabio Mengali, Lorenzo Barbanera, Renata Leardi e Lorisfelice Magro – entra nel cuore dei rapporti e delle condizioni di lavoro nell’università italiana.

I temi affrontati illustrano un mondo pieno di ansia e precarietà, che ha fatto del merito un’ideologia di esclusione e disciplinamento, la quale pregiudica, con la tirannia della velocità e della quantità, la qualità della ricerca e i tempi di vita delle persone (studenti e studentesse compresi), ma anche il diritto allo studio e le relazioni tra chi lavora nell’università nell’ambito della ricerca – oltre che l’università stessa come istituzione – e il resto della società.

QUEST’ULTIMO TEMA è affrontato in modo ampio nella terza parte – «Fuori», elaborata con i contributi di Alessia Tortolini, Paola Imperatore e Federica Frazzetta e Daniele Lo Vetere – nella quale si mette in evidenza come sia possibile fare ricerca fuori dall’accademica, presentando il percorso intellettuale dello storico Angelo Del Boca, ma anche quanto questo sia difficile e abbia costi da pagare. Questi costi si registrano anche nei percorsi di chi cerca di costruire ponti tra dentro e fuori l’accademia, ponendosi la domanda se sia possibile un’altra università, e dentro e fuori la scuola, chiedendosi quale funzione ricoprano in prevalenza i docenti delle scuole secondarie (intellettuali subalterni, professionisti riflessivi o tecnici dell’educazione?).

Dunque, L’accademia e il fuori è un libro pieno di sfide culturali e politiche per chi lavora nelle università, nella scuola e, più complessivamente, nell’industria culturale e della formazione. Esso aiuta la riflessione – con l’ambizione che diventi collettiva – sul valore sociale di queste attività lavorative, contribuendo, tra l’altro, a ridurre il grado di isolamento che vivono tante persone precarie nelle università italiane.

Rendendo evidente che, al contrario, una presa di parola è possibile, così come è ancora possibile svolgere un lavoro intellettuale che miri, come indicato in un testo del 1971 di Franco Fortini, acuto studioso delle trasformazioni di questo tipo di lavoro, a «passare dal senso di un tempo non qualificato, che si contorce nell’attimo, a quello di un tempo sostenuto dalla solidarietà». Dunque, un tempo dotato di senso, non (s)travolto dalla macchina della performance.

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