Su-won Shin, essere registe
Sia che riveli lei, Ji-wan Kim, la regista protagonista del film, immersa nella solitudine cosmica di un cinema vuoto a Seoul, dove – presente la sola produttrice – assiste all’ultima proiezione di Ghost man, sua opera terza (lo sguardo sconfortato verso lo schermo e nell’aria il cupo timore di non poter fare altri film; a sorpresa, però, verranno tre ulteriori spettatori…); sia che avvertiamo il suo respiro al limite di sé in piscina, la sua espressione quando il figlio le chiede di fare film «divertenti» che non annoino gli amici, o quando il marito, da cui vuole separarsi, le rinfaccia di non aver mai guadagnato abbastanza. O ancora quando immagina la sua vicina, mai più vista da mesi, come la donna ritrovata morta dalla polizia, causa suicidio. O in bagno dove una voce antica e profonda le chiede di essere liberata… o mentre le appare un’ombra di donna affascinante e dolente, cappello e cappotto retrò e rimbombare di tacchi nella notte…
Jae-Won Hong
E quando – infine – accettando l’ennesimo «lavoro low budget ma molto significativo» («non potresti propormi il contrario?»), ovvero il restauro di A woman judge, terzo e ultimo film di Jae-won Hong – regista attiva negli anni ’60 – Ji-wan si sente chiamata dal desiderio-necessità di una indagine nel tracciato della sua predecessora e delle sue colleghe, in cerca delle parole e delle scene mancanti del film, nonché della pellicola integrale, scomparsa tra i meandri rimossi della storia di genere del cinema coreano.
In tutte queste rifrazioni Hommage di Su-won Shin non smette di incantare e di approssimarsi nel modo più intimo e vero a cosa voglia dire essere registe in un certo modo in Corea del Sud, ma anche altrove. Tra ostacoli frastagliatissimi ancora in buona parte presenti, che rischiano di far soccombere al sistema le soggettività dalla sensibilità più affilata, e le sottili energie creative che queste custodiscono in sé, capaci di farle rinascere ogni momento. Specie sapendo ricontattare le risorse spirituali inestimabili delle pioniere. Che sono ancora lì. Intatte. Per chi sa vederle.
Come accade con il Florence Korea Film Festival, dove il film sarà proiettato. La ventesima edizione, diretta da Riccardo Gelli, si tiene dal 7 al 15 aprile in diverse sale fiorentine e online su Più Compagnia e MYmovies.
La visione di Hommage lascia dentro l’impronta dolce e increspata del paesaggio fisiognomico di Lee Jung-eun, nel ruolo della governante in Parasite e qui regista senza lavoro, spaventata, tra l’altro, dal previsto arrivo di un tifone che potrebbe penetrare in casa tramite un buco in un vetro, buco da lei prodotto anni prima, usando le luci per delle riprese.
Scene mancanti
Pure, è da quel foro che Ji-wan guarda al mondo, è da quel tarlo nel cervello che si incaponisce sulle scene prive di sonoro di Una giudice donna, cercando di decifrarne il parlato e riuscendo a ritrovare – dopo una visita alla figlia della regista e dopo avere indossato l’abito di scena che era solita portare a fine riprese – anche la sceneggiatura originale, a conferma della mancanza di alcune sequenze. (Nella realtà la giudice era avvelenata dal marito ma il film aveva un lieto fine: Jae-won non era convinta del soggetto però temeva che non avrebbe più esordito).
Poi, sulla scia di una foto in bianco e nero che ritraeva Jae-won con una sua amica montatrice e con Nam-ok Park – prima donna regista del cinema coreano – si dispiegano le ulteriori tappe del viaggio di Ji-wan in cerca della sua musa ispiratrice, prima in un caffè dove era solita scrivere sempre allo stesso tavolo, poi dalla tenerissima sopravvissuta montatrice, che ancora danza le musiche che loro amiche amavano e che le consegna una lettera ricevuta da Jae-won: «Tu mi dici che io potrei esordire a 60 anni ma io sono già un fantasma in quest’industria».
Scriveva anche di sentirsi esausta. Per poter lavorare era costretta a nascondere di avere una figlia persino alla montatrice, e a veder censurati frammenti su frammenti di pellicola, solo perché si mostrava la protagonista intenta a fumare.
Pregiudizi
Ma anche oggi Ji-wan – oltre alla penuria di finanziamenti – si trova innanzi a pregiudizi culturali, alla presunta impossibilità di conciliare professione e vita privata (il figlio le chiederà di lasciare la regia, ma poi, attratto dai versi, comprenderà la poesia del lavoro della madre).
A seguire, la congerie di resistenze incontrate da Ji-wan – in un timing di trasparenze tra passato e presente – riverbererà sul suo corpo, con un problema deflagrante all’utero: sarà l’acme della squisitezza metaforica del film, che rimanda a Speculum di Irigaray, e allo sguardo di una cineasta che è tutt’uno inseparabile con la camera oscura del suo corpo.
Allora, in uno struggente scioglimento, risplenderanno al sole reperti sotterranei di pellicola (ritrovati genialmente non diciamo come), e si potrà contemplare la luce che arriva da un foro sul tetto in un vecchio cinema dismesso. Sentire la connessione tra quella luce, che non ha smesso mai di darsi, e la possibilità di vedere in noi stesse come non ci siamo mai viste, per sempre.
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