Su Raqqa marciano i marines, stivali al posto dei diplomatici
Siria Estromessi dal negoziato, gli Usa puntano alla "capitale" dell’Isis sfruttando i kurdi. Turchia, Russia e Stati uniti ormai «a distanza di una granata l’uno dall’altro»
Siria Estromessi dal negoziato, gli Usa puntano alla "capitale" dell’Isis sfruttando i kurdi. Turchia, Russia e Stati uniti ormai «a distanza di una granata l’uno dall’altro»
Raqqa è circondata su tre lati. Lungo il quarto, a sud, scorre l’Eufrate. A chiudere il cerchio sulla “capitale” dello Stato Islamico sono state nelle ultime settimane le Forze Democratiche Siriane, federazione kurda, assira, turkmena, circassa e araba che si muove con regolarità verso il bastione islamista, verso la prima città occupata dall’Isis nel gennaio 2014, cinque mesi prima la presa di Mosul.
Con le opposizioni siriane fuggite con l’arrivo del “califfato”, le uniche forze a tentare la controffensiva sono quelle kurde di Rojava a cui si sono uniti gruppi di etnie diverse. Le stesse forze che, celebrando con la loro semplice composizione anti-settaria il passato siriano, l’estate scorsa hanno liberato Manbij e che al momento sono a 70 km dal centro di Raqqa.
Ora a raccogliere i frutti arrivano i marines. Già sul campo al fianco delle Sdf, presenza occulta e sempre spacciata dal Pentagono come mera assistenza logistica, vedono ora svelato il proprio ruolo: parteciperanno all’operazione finale per la liberazione di Raqqa, prevista entro poche settimane. A confermarlo è il portavoce della coalizione anti-Isis, il colonnello Dorian: «Parliamo di 400 persone che stanno lì temporaneamente». Un numero a cui vanno sommati altri mille marines mandati in Kuwait, pronti ad intervenire.
La notizia di quegli stivali sul terreno, stavolta ufficialmente per operazioni di terra, i primi voluti dal nuovo presidente Trump, giunge a pochi giorni dall’incontro tra i capi di stato maggiore di Russia, Usa e Turchia, per coordinare gli interventi anti-Daesh nel nord della Siria.
Tre soggetti con visioni e alleanze diverse che rischiano uno scontro reale nel corridoio di terre che da al-Bab, nella provincia nord di Aleppo, corre fino a Raqqa e Deir Ezzor, a ovest: la Russia continua nel sostegno militare e politico al presidente Assad, giunto ai primi scontri fisici con le opposizioni guidate dalla Turchia a Rojava; e gli Stati Uniti proseguono con la strategia del piede in due staffe, appoggiando le Sdf che subiscono gli attacchi dell’esercito turco nel nord del paese, ma senza scaricare il partner Nato che chiede ossessivamente l’esclusione dei kurdi dall’operazione su Raqqa. Per evitare altri attacchi, ormai quotidiani, truppe di élite Usa sono state già dispiegate vicino Manbij.
Una situazione riassunta dal comandante della coalizione anti-Isis, il generale Townsend: le forze presenti in Siria, ha detto 10 giorni fa, «sono arrivate letteralmente a distanza di una granata l’una dall’altra». Così è, una guerra palesemente globale che rischia di implodere nel mare di contraddizioni strategiche che da sei anni guidano potenze internazionali e regionali.
Altre dichiarazioni confermano il caos siriano, quelle del portavoce del gruppo salafita anti-Assad Ahrar al-Sham: in un’intervista ieri su al-Jazeera, Ahmad Qara Ali (rappresentante di una milizia che, nonostante i precedenti legami con l’ex al-Nusra e un’ideologia molto vicina a quella qaedista, è invitato al tavolo Onu di Ginevra) definisce «non positiva» la possibilità che Washington interferisca nell’operazione turca Scudo dell’Eufrate, diretta al momento su Manbij, e «possibile» il suo avanzamento su Raqqa così come la partecipazione di Ahrar al-Sham.
Chiara è comunque l’intenzione statunitense di rientrare con gli stivali dei marines nel campo di battaglia da cui le cravatte della diplomazia sono state estromesse. Tagliati fuori dalla “soluzione” politica, gli Stati uniti hanno bisogno di registrare vittorie e puntano su Raqqa, simbolo del progetto statuale islamista. Alla pari di Mosul dove gli Usa prendono parte attiva all’attuale operazione governativa.
Ieri il gruppo indipendente di monitoraggio Airwars ha accusato gli Usa di aver ucciso dal primo marzo tra i 250 e i 370 civili iracheni in bombardamenti su Mosul. Numeri che la coalizione non conferma. Allo stesso modo è difficile confermare il bilancio di Baghdad: il 60% della zona ovest della città è stato strappato all’Isis.
Di certo l’avanzata governativa intorno alla città vecchia è più veloce del previsto: negli ultimi giorni sono stati ripresi gli edifici governativi nel distretto di Dawassa, usati dall’Isis come quartier generale, il museo di Mosul, la prigione di Badush (teatro di massacri islamisti) e la strada che a nord-ovest conduce a Tal Afar e al confine siriano.
Lo Stato Islamico, sotto pressione, continua nella sua strategia di destabilizzazione: un kamikaze mercoledì notte si è fatto saltare in aria ad un matrimonio nel distretto di Tikrit, uccidendo 26 persone. Con un obiettivo chiaro: da nord a sud, da est a ovest, gli attacchi suicidi servono a delegittimare uno Stato già di per sé disfunzionale e ad ampliare le distanze tra comunità sciita e sunnita.
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