Visioni

«Stuporosa», vorticosa trance di un rituale senza tempo

«Stuporosa», vorticosa trance di un rituale senza tempoUn momento di «Stuporosa» al Teatro India – foto di Claudia Pajewski

Teatro e danza Lo spettacolo di Francesco Marilungo ha chiuso il festival Short Theatre. Ispirato ai libri di De Martino e al tarantismo, in scena cinque danzatrici

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 settembre 2023

Si è chiuso Short Theatre, in questo convulso sovrapporsi dei festival autunnali nella capitale. Il vero gran finale è stata una grande sorpresa, di danza ma non solo, di Francesco Marilungo, giovane coreografo arrivato alla danza con una formazione tutta scientifica (in ingegneria termomeccanica) ma già da qualche anno attivo in palcoscenico. Il lavoro che ha presentato in esterni all’India porta in scena cinque donne, di elegante ed antico abito nero vestite, sotto il titolo Stuporosa. E già il titolo, al di là della sua musicalità evocatrice, svela subito la propria polivalente «ambiguità», per chi ricorda che nei testi fondamentali di Ernesto De Martino viene approfondito come in diversi fenomeni di trance della cultura religiosa popolare, e in particolare nel tarantismo pugliese, la «ebetudine stuporosa» sia il nome che fin dalle teorie mediche seicentesche di Giorgio Baglivi (uno dei padri fondatori della moderna medicina) definisce lo stato di trance, se non di vera e propria possessione, ritualità popolari che oggi sono più scientificamente definite dalla dottrina medica.

ERANO DIFFUSE fino a pochi anni fa (e più velatamente resistono forse ancora) nel meridione italiano manifestazioni fisico/esistenziali, come appunto il tarantismo devoto a San Paolo nella chiesetta che ne porta il nome a Galatina (oggi assediata dal ristorante che la avvolge), o il ballo di San Vito, o certi riti funebri esorcistici, o ancora forme epilettiche, come quelle devote a San Donato che chiedevano la guarigione pagando in soldi, e sangue dalla fronte, nella chiesetta che ne porta il nome a Montesano. Per non parlare poi del vudù che dal Senegal fino ad Haiti si è diffuso e studiato, e trasformato esplicitamente in «arte» da molto importante teatro del ’900, da Jean Genet a Peter Brook, o addirittura protagonista del fondamentale «teatro della crudeltà» di Antonin Artaud. Una conoscenza che si faceva pratica, tra gli intellettuali più avvertiti, di un patrimonio culturale da non perdere in nome di una malintesa «modernità». E proprio tra questi, fondamentale per lo schermo fu l’etnologo Jean Rouch, il cui sconvolgente documentario Les maitres fous girato nelle periferie del Ghana, viene considerato anche alle origini «ideologiche» della rivoluzionaria nouvelle vague cinematografica.

Tutti fenomeni di «possessione», che alla nostra cultura contemporanea appartengono, e che per «pudore» se non per vergogna vengono rimossi o accantonati in un passato di radici da velare, se non nascondere. La stessa «notte della taranta» è divenuta una corposa adunata pop, che usa solo strumentalmente la propria origine sanguigna, devozionale, violenta, quasi a voler pudicamente censurare le radici religiose e sociali di quella possessione dovuta al morso di un insetto della famiglia dei ragni, la cui aggressività è pur divenuta invece elemento fondante di tanto teatro «fisico». Del resto perfino a Malta, dove san Paolo approdò dopo un naufragio nel viaggio verso Roma, al santo è dedicata una piccola cappella in riva al mare decisamente linda e pinta. Benché su quell’isola leggenda vuole che quel padre della chiesa schiacciò con il piede nudo il serpente che minacciava gli astanti, divenendo così il protettore di tutte le vittime di morsi di animali velenosi (come appunto la taranta e tutte le sue variazioni ragnesche).

Tornando all’artista che questo mondo evoca in maniera avvolgente, bisogna riconoscergli subito un discreto coraggio e una accurata sensibilità scenica, in grado di colpire e conquistare anche chi non abbia necessariamente studiato sui libri di De Martino, da Morte e pianto rituale a (soprattutto) La terra del rimorso, dedicato appunto alle vittime del morso delle tarante, e ai loro riti annuali di guarigione (il 29 giugno naturalmente, festa di san Paolo per il calendario cristiano e apice del caldo estivo in arrivo).

LE CINQUE DANZATRICI chiamate da Marilungo appaiono davvero in preda a una possessione, cui il loro corpo cerca di dare ordine e senso. Con grande padronanza del ritmo e della fluidità inarcano immagini circolari che lo scatto di ognuna può frantumare: così come l’agitare tessuti velati che sopra e tra di loro compongono geometrie insperate. Qui le tele son chiare, nel tarantismo ognuno impugna qualcosa, magari uno straccio, dello stesso colore dell’animale che lo punse causandogli il male.
Le donne danzano e creano immagini in-finite, ora lente ora vorticose. E va dato loro il merito di un lavoro collettivo stupefacente. Sono Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini e Vera Di Lecce. Quest’ultima firma anche le musiche e le rielaborazioni (elettroniche) di antichi suoni e respiri (oltre che comandare quando serve l’impianto audio dalla consolle).
Trasmettono tenerezza e a momenti anche paura quelle creature, mentre danzano oggi, immobilizzandosi come vorticando, in preda alla più totale «possessione». Dà quasi i brividi quel frugare attraverso il movimento dentro di sé e dentro di noi spettatori. Stuporose loro, stupiti e impressionati noi, da quel frugare tra cuore e memorie.

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