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Striscioni in fiamme, tra calcio e geopolitica

Striscioni in fiamme, tra calcio e geopolitica

Sport Il sostegno ai curdi dei tifosi europei e la messa al bando degli atleti da parte della Turchia: anche in curva si gioca una partita «incendiaria»

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 17 settembre 2022

«Rise up for Rojava». Un recente striscione della tifoseria del Bayern Monaco, il più importante club del calcio tedesco, così ha posto l’attenzione su una questione che esce dal perimetro del mainstream, ma di preoccupante attualità. Il Rojava nasce dalle ceneri della Siria messa in ginocchio dalla guerra civile: dieci anni c’è stata l’indipendenza de facto con lo sforzo del Pkk, ovvero il partito dei lavoratori del Kurdistan, oltre all’impegno della popolazione locale. Questo progetto politico si fonda sul concetto di democrazia diretta attraverso il Confederalismo democratico e vede nella sua ideale carta dei valori la parità di genere, la tolleranza etnica e anche la sostenibilità, è messa a dura prova dall’imperialismo turco. Erdogan, non ha mai perso di vista il Rojava, anche mentre si accomoda da paciere per la risoluzione del conflitto militare ancora aperto in Ucraina. Anzi, dopo l’accordo per l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, il progetto di Erdogan è riprendere da dove si era fermato tre anni fa, ovvero occupare la Siria del Nord, quella fascia profonda di 30 km sul confine, creando una cintura araba, delineando una zona cuscinetto in cui incastrare i curdi che si trovano in Siria e quelli in Turchia.

Fin qui è geopolitica, ma il calcio c’entra, prende posto alla questione. Svezia e Finlandia, in particolare Stoccolma, si sono impegnate più volte per i rifugiati curdi.
Un piccolo club del calcio svedese, il Dalkurd, fondato nel 2004 e arrivato sino alla massima divisione cinque anni fa, per anni è stato considerato la squadra dei rifugiati. Appunto 18 anni fa, a 200 km dalla capitale, nove esuli curdi hanno fondato un piccolo club che andava a riunire sotto un unico cappello tutti i rifugiati dalle guerra internazionali. Sono sfuggiti anche al disastro aereo della Germanwings di sette anni fa. Nel 2014 grazie al club pro curdi ha fatto il giro di Svezia lo striscione con la scritta «Save Kobane», che i giocatori hanno esposto prima di un match di campionato; un’iniziativa che, contestualmente a una raccolta fondi organizzata dal club, ha contribuito a mantenere viva l’attenzione verso la città simbolo della resistenza curda contro l’avanzata dell’Isis in Siria.

Insomma, una storia intensa, travagliata, fatta di integrazione e resistenza, che potrebbe volgere al peggio per i curdi. Con l’accordo Nato, Svezia e Finlandia vanno ad allentare il rapporto con i figli del Kurdistan, la strada per Erdogan appare più libera.
C’è da ricordare che il legame tra curdi e calcio è intenso. Come ricorda Pallonate in Faccia, un profilo Twitter che si distingue per il racconto di storie di calcio che si intersecano con politica e storia, sei anni fa il governo turco su indicazione di Erdogan ha spedito le forze dell’ordine a sequestrare tutto quello che riguardasse il piccolo club dell’Amedspor, che si trova nella parte sud-orientale dello stato, a Diyarbakir. Aveva osato battere il Bursaspor, considerato il club turco più vicino a Erdogan.

L’accusa governativa è stata di sostegno al terrorismo curdo, perché poche ore prima dal suo profilo Twitter l’Amedspor aveva condiviso un tweet di sostegno alle attività del Pkk. I cori dei tifosi curdi in favore dei combattenti peshmerga era consolidata tradizione allo stadio dell’Amedspor.

Molti di quei tifosi vennero arrestati. Tra i calciatori curdi che sono passati per l’Amedsport c’è anche Deniz Naki, che tre anni fa si è piazzato a fare lo sciopero della fame davanti alla sede delle Nazioni Unite a Ginevra. L’obiettivo era attirare attenzione e accendere i riflettori sull’intervento militare della Turchia ad Afrin, enclave di etnia curda nella zona settentrionale della Siria. Deniz Naki è stato un ex calciatore del St.Pauli, il club tedesco da sempre impegnato nelle cause civili e nel sostegno alla comunità lgbt, soprattutto è una vecchia e sgradita conoscenza per Erdogan. Così inviso al potere che diversi calciatori della massima divisione turca, per compiacere il premier, contro l’Amedspor e non solo si distinguevano per il saluto militare a un gol. La pratica è stata poi diffusa da altri atleti turchi in Europa, in Italia è accaduto alla Roma con Cengiz Under. Per Naki invece, tra gli effetti collaterali della sua scelta di campo a favore dei curdi, è arrivata pure una condanna da un tribunale, 18 mesi di carcere – pena poi sospesa – per propaganda terroristica dopo avere pubblicato sui social materiale relativo al PKK. Infine ha messo il carico la federcalcio turca, ovviamente influenzata dalle attenzioni di Erdogan verso il calciatore: Naki ha incassato una squalifica di tre anni e mezzo per aver condiviso sui social un video in cui si faceva appello a partecipare a una manifestazione contro l’offensiva militare lanciata dalla Turchia ad Afrin.

È il destino per gli sportivi turchi che hanno qualcosa da dire contro il potere assoluto del Sultano. In questo caso sulla resistenza dei curdi, poi ci sono altri come Enes Kanter, cestista della Nba, qualche anno ai New York Knicks, che si è permesso in una serie di tweet di mettersi contro Erdogan, al punto di ricevere una condanna di oltre quattro anni.

Attualmente non può uscire dagli Stati Uniti e dall’alto lato dell’Oceano Atlantico si trova in esilio l’ex punta dell’Inter, Hakan Sukur:incriminazione per terrorismo, per sospetta vicinanza al predicatore Gulen dopo essere addirittura entrato nel Parlamento turco con il partito conservatore di Erdogan. Dopo la rottura tra Erdogan e Gulen, Sukur si legava al predicatore fino a dimettersi dal partito di governo, subito cancellato dai documenti ufficiali del Galatasaray, rischiando la vita per avere detto via social di «essere albanese, non turco» e fuggendo poi a San Francisco dopo il colpo di stato – attribuito a Gulen – di luglio di cinque anni fa. Dunque, chi in esilio, chi in fuga: lo sport, inteso come strumento di costruzione del consenso, è di proprietà dell’Akp, che ha intuito quanto la presa di posizione di un campione possa pesare sull’opinione pubblica del Paese.

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