Strauss, il settecento come travestimento del presente
A teatro «Der Rosenkavalier» ritorna alla Scala. Kirill Petrenko si addentra nella partitura con sensibilità e rigore ritmico
A teatro «Der Rosenkavalier» ritorna alla Scala. Kirill Petrenko si addentra nella partitura con sensibilità e rigore ritmico
Torna al Teatro alla Scala la produzione di Der Rosenkavalier di Richard Strauss già allestita con grande successo nel 2016. Lasciandosi alle spalle gli eccessi espressionistici di Salome ed Elektra, nel 1911 Strauss decise di realizzare un’opera «neoclassicamente» mozartiana: la coppia Marescialla-Octavian richiama quella Contessa-Cherubino de Le nozze di Figaro, mentre Ochs è la versione volgare e affarista di Almaviva/Don Giovanni, con citazioni da Les amours du chevalier de Faublas di Louvet de Couvray, a sua volta pieno di allusioni a Le Mariage de Figaro di Beaumarchais, cui è ispirato il libretto delle Nozze di Da Ponte. In mezzo a tutti questi riferimenti settecenteschi, il monologo di Ochs, malconcio dopo il duello con Octavian alla fine del II atto, e la beffa ai suoi danni nel III atto, ci proiettano avanti di un secolo, richiamando la spietatezza della burla ai danni del protagonista di Falstaff, pur senza prendere a prestito la benevolenza di Verdi per il vecchio gradasso ma buono. Che Der Rosenkavalier giochi sull’anacronismo e che, come nella Traviata, il Settecento in cui il libretto di Hugo von Hofmannsthal ambienta la storia sia un travestimento del presente, ce lo svela la presenza pervasiva e cangiante del valzer, come quello in guisa di minuetto della colazione (I atto) o quelli grevi che accompagnano le avances di Ochs alla servetta (III atto), uno dei quali fa il verso a Johann Strauss.
QUESTO GENERE frusto, rivitalizzato da Strauss con procedimenti di straniamento tipicamente novecenteschi (si direbbe postmoderni ante litteram), più che fungere, come nella Traviata, da marcatore di realtà storica, sottolinea a suon di paradossi l’incontro simbolico e perturbante dei corpi. Quello forzato tra Ochs e Sophie, che, rovesciando la storia di Violetta/Alfredo e anticipando quella di Angelica/Tancredi nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ci parla di mutua prostituzione sociale (la nobiltà affamata di denaro e la borghesia di titoli). Quello voluto tra la Marescialla e Octavian, che porta allo scoperto il cortocircuito tra lo scorrere inesorabile del tempo fisico, avvertito dalla donna attempata (folgoranti le sue parole: «Passiamo così i giorni della vita, e nulla è il tempo. / Ma poi a un tratto, ecco, altro non sentiamo che lui»), e l’illusione di eternità prodotta dalla passione, incarnata dal giovane amante che vive nel presente («Se lei mi ha qui, ora lei fa questi pensieri?»).
KIRILL PETRENKO si addentra nella partitura con un rigore ritmico, una sensibilità coloristica e un senso teatrale che lasciano sbalorditi e, mentre la sua esecuzione si fissa prepotentemente nella memoria (basti pensare alla magia dell’ingresso della rosa o a quella del terzetto Marescialla-Octavian-Sophie), svela d’un tratto la dimenticabilità di tante altre esecuzioni recenti. Krassimira Stoyanova (Marescialla), Kate Lindsey (Octavian) e Sabine Devieilhe (Sophie), coi loro timbri sinceramente lirici e i loro fraseggi attenti, sono strepitose; laido come si deve, nonostante qualche suono spinto oltre il limite, l’Ochs di Günther Groissböck. La regia di Harry Kupfer mescola gli stilemi della commedia degli equivoci (la beffa ai danni di Ochs), della pièce sentimentale (il colpo di fulmine tra Octavian e Sophie) e del dramma borghese (le tresche extraconiugali della Marescialla, il matrimonio d’interesse tra il nobile Ochs e la borghese Sophie) con venature filosofiche (le riflessioni della Marescialla sulla fugacità delle passioni). Le scene di Hans Schavernoch e le retroproiezioni di Thomas Reimer restituiscono le atmosfere della Vienna di inizio Novecento sul finire dell’impero Asburgico: in bianco e nero nei primi due atti il salone dell’Hofburg e i palazzi della Ringstraße, a colori accesi l’affollata osteria nel III atto, entrambi accerchiati dai parchi brumosi e silenti di Schönbrunn e del Prater. Bruma e silenzio in cui non cessano di echeggiare le domande iniziali di Octavian sull’enigma dell’identità scossa dal desiderio («”tu ed io”? C’è un qualche senso? Sono parole vuote, ma l’Io si dissolve nel Tu»), cuore pulsante di tutto il teatro “freudiano” di Hofmannsthal/Strauss.
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