Steve Coleman e i suoi Five Elements rappresentano ancor oggi – pur essendo attivi dalla II metà degli anni ’80 – un punto fermo, quanto dinamico, nel panorama del jazz contemporaneo. Ben lo sa il pubblico che ha affollato, senza riempirla, la sala Sinopoli del Parco della Musica per il concerto finale del Roma Jazz Festival. Quest’ensemble mutevole (dove sono passati anche Ambrose Akinmusire, Jason Moran e Vijay Iyer) ha come ingredienti-base “strategie ritmiche cicliche, adattate dalle musiche dell’Africa occidentale e dell’Asia meridionale; precetti numerologici ispirati all’antico Egitto e agli orisha; (…) lo schiocco e la trance di un groove funk alla James Brown” (N.Chimen, “La musica del cambiamento”, IlSaggiatore p.92). Se in anni recenti la poetica dell’altosax Coleman era apparsa tendere verso rarefazione ed astrattismo, le recenti produzioni discografiche (Live at the Village Vanguard voll. I e II, Pi Recordings) e le esibizioni dal vivo, come quella romana, segnalano un potente, energetico ritorno al “groove funk”. 

CERTO l’interesse per la “street culture” e i “black phonemics” ci sono sempre stati e la presenza in organico del rapper Kokayi – con cui l’altosassofonista collabora dai tempi di Metrics (1995) – contribuisce a questo slancio. Resta fermo il mutevole e generativo interplay con la tromba di Jonathan Finlayson, la batteria di Sean Rickman e il basso elettrico del giovane e talentuoso Rich Brown. La parte del concerto riservata a sole voci e percussioni ha mostrato, peraltro, lo schema “nudo”, poliritmico e polifonico, della musica dei Five Elements, mentre la guizzante citazione finale della parkeriana Confirmation ha rivendicato un consapevole legame con la rivoluzione sonora del bop. La parte del concerto riservata a sole voci e percussioni ha mostrato, peraltro, lo schema “nudo”, poliritmico e polifonico, della musica dei Five Elements

La tematica “Immersivity” del Roma Jazz Festival 2022 è stata pienamente centrata dal recital – intitolato “Soundmorphosis” – del pianista Danilo Rea in dialogo con il videoartista Paolo Scoppola (sala Sinopoli, 17/11). I due, dopo il concerto, hanno parlato di “arte digitale interattiva” e spiegato tecnicamente come fosse stato preparato un software per analizzare i suoni catturati, attraverso i microfoni, dal piano di Rea: in definitiva la creazione di un “ponte” tra acustico e digitale, tra musica dal vivo e immagini generate dal computer. La performance ha avuto fasi alterne, alcune di studio ed altre di più efficace ed emotivamente toccante produzione, con una vasta componente improvvisativa (in cui Danilo Rea è maestro) e il ritornare del beatlesiano motivo Across the Universe. La sensazione diffusa, tra palco e platea, è stata quella di essere in presenza di un esperimento che avrà lungo seguito e che potrà trasformare in modo radicale produzione e fruizione della musica e dell’arte. (52)

SE UNO degli intenti del Roma Jazz Festival era quello di allargare il pubblico verso i giovani e il “dancefloor”, il concerto del londinese polistrumentista-tastierista-compositore Alfa Mist al Monk (18/11) ha indicato la strada. Recital con pubblico in piedi, con brani noti come Organic Rust, Run Outs e Teki. Mist è un protagonista della nuova scena britannica e propone un “mix di urban hip-hop, lounge downbeat e avantgarde jazz”. Particolare il suo modo di usare le tastiere (e di rappare), ha ottimi musicisti come il trombettista James Copus, il chitarrista Jamie Leeming e la formidabile sezione ritmica: la batteria virtuosistica di Nathan Shingler e il basso di Kaya Thomas-Dyke, anche notevole cantante. Alfa Mist sa organizzare e guidare la sintesi, in modo originale e inconsueto, di elementi-stili sonori già esistenti, che spesso si sviluppano su armonie ricorrenti in direzione di una ricerca timbrico-ritmica innovativa. Feeling assicurato e pubblico entusiasta.