Strategie di uscita dal fondamentalismo
Intervista Parla Maajid Nawaz, attivista e giornalista anglo-pakistano che ha scritto «Radical» (Carbonio editore) dove racconta la sua vita - ora rinnegata - di reclutatore di terroristi
Intervista Parla Maajid Nawaz, attivista e giornalista anglo-pakistano che ha scritto «Radical» (Carbonio editore) dove racconta la sua vita - ora rinnegata - di reclutatore di terroristi
Le tappe del processo di radicalizzazione di un individuo, nonostante la mole di letteratura scritta sul tema, non fanno parte di un percorso preordinato. Al contrario, sono molti i fattori che ne determinano l’insorgenza. Alle volte, ci si trova di fronte a un iter culturale controverso. Spesso, si parla di allontanamento dalla realtà o di collasso dell’identità individuale. Definizione curiosa ma efficace è quella di Luigi Zoja, luminare della psicoanalisi junghiana, nel saggio scritto a quattro mani col giornalista Omar Bellicini, Nella mente di un terrorista (Einaudi, 2017): «Penso si tratti di uno shock culturale. Nel fenomeno del radicalismo rivedo l’esperienza di Colombo. che al termine del suo primo viaggio, lasciò un piccolo presidio nell’isola detta Española (oggi Haiti). Sino a quel momento i contatti con gli indigeni erano stati pacifici. Al suo ritorno, gli uomini del presidio erano morti. In quell’occasione ci fu un chiaro scontro fra identità maschili. Da quel momento in poi, la percezione reciproca cambiò».
A ben vedere, c’è più di un’analogia tra l’esperienza dell’esploratore genovese e quella di Maajid Nawaz, attivista e giornalista anglo-pakistano di fede islamica, nato a Southend, nell’Essex. Oggi co-fondatore di Quilliam, associazione che promuove l’integrazione e il rispetto per i diritti umani e combatte gli estremismi, a 16 anni scelse la strada del fondamentalismo, salendo l’intera «scala gerarchica del terrore» fino a diventare un reclutatore. Anche Maajid, come il presidio di uomini lasciati da Colombo a Haiti, era immerso in un clima tranquillo nella sua cittadina natale fino a quando l’uccisione di un coetaneo gli procurò uno shock. Da quel momento la sua vita non è stata più la stessa. L’episodio è raccontato con rude vividezza in uno dei capitoli del suo libro, Radical (Carbonio, pp. 316, euro 17,50): «Circondato da quei pazzi con la bava alla bocca capii che era arrivata la mia fine. Ma non morii. Accadde una cosa stranissima. Un passante, un bianco con l’aria da intellettuale borghese, vide la mia situazione e si mise in mezzo tra me e gli skinhead. Gli skinhead guardarono Matt (si chiamava così il «bianco con l’aria da intellettuale borghese», ndr). ‘È un pakistano del cazzo’, ringhiò uno, ‘e tu sei uno stronzo amico dei pakistani!’. Così, per quella che parve un’eternità, guardai, mortificato, raggelato, mentre i teppisti del C18 lo bastonavano, lo accoltellavano e gli davano calci in testa dopo che era già a terra».
Improvvisamente, il destino di Maajid Nawaz mutò. In Radical, il percorso angosciato dal male alla coscienza democratica e civile si dipana lungo le oltre 300 pagine: l’arresto per terrorismo internazionale in Egitto, i quattro anni di prigione nel penitenziario di Tora, nei pressi del Cairo e il ribaltamento delle proprie convinzioni fino alla liberazione grazie ad Amnesty International.
Come sarebbe stata la sua vita senza l’esperienza del carcere?
L’Egitto dell’epoca era un paese con due sistemi giudiziari paralleli. Il secondo, quello delle leggi speciali, non era vincolato da alcuna regola. Per tutta la vita mi ero trovato coinvolto in accoltellamenti e risse, ma non ero mai stato costretto all’umiliante posizione di chi non ha altra scelta se non lasciarsi picchiare. Comunque, non sarei l’uomo che sono se non fosse per il mio passato. Sarei un’auto da corsa impazzita invece che un convinto sostenitore della lotta al terrorismo.
Secondo lei, qual è il fattore che spinge una persona ad abbracciare il fondamentalismo, sia di matrice religiosa che politica?
Li riassumerei in quattro fondamentali: in primo luogo, il risentimento sociale che colpisce un individuo vulnerabile. In secondo luogo, una crisi identitaria originata da una necessità disattesa: l’individuo non si sente pienamente parte del paese in cui è nato e, al tempo stesso, legato maggiormente al paese d’origine dei genitori. Tale «interferenza» rende più attraente le sirene di certi programmi di affiliazione. Poi, c’è il ruolo del reclutatore che può sfruttare questo caos intimo per instillare un senso di appartenenza appagante. Infine, l’appartenenza all’ideologia radicale di massa. Se questi quattro fattori sono alla base della radicalizzazione, allora è qui che qualsiasi strategia di de-radicalizzazione deve concentrarsi.
I modelli di integrazione britannico e francese hanno funzionato, oppure hanno fallito?
Nessuno di questi due può essere considerato un successo. Quello «multiculturale» britannico degli anni ’90 ha fornito buoni incentivi economici per l’integrazione, ma decisamente pochi di natura culturale. Discorso inverso Oltremanica, dove hanno sempre sottolineato ciò che significava essere culturalmente «francese» trascurando le comunità di minoranza nel mercato del lavoro. Di tutti gli Stati dell’Ue, quelli che sembrano aver fatto il lavoro migliore sono i Paesi Bassi: hanno raggiunto l’obiettivo concentrandosi sull’integrazione in un contesto inclusivo.
Un «cambiamento radicale» di cui il mondo ha bisogno oggi?
L’emergenza Isis ha risvegliato l’idea che i precetti dati per scontati nell’Islam debbano passare attraverso un rigoroso vaglio interno. Una riforma deve essere sostenuta dai paesi a maggioranza musulmano-sunnita. Di recente, i governanti in Egitto e in Arabia Saudita hanno aperto a questa idea, e molti giovani del Medio Oriente sono pronti.
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