Visioni

Strategie di sopravvivenza per l’immaginazione

Strategie di sopravvivenza per l’immaginazione

Cinema La rassegna Registi fuori dagli schermi arriva online, in programma «L’odore del sangue» e l’incontro con Martone il 30 aprile

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 28 aprile 2020

Carlo Emilio Gadda non si sarebbe affatto scomposto di fronte alla situazione di contenzione che si sta verificando in questo periodo, dedito com’era all’evasione mentale piuttosto che fisica: il titolo di un suo libro divenuto eponimo per me quando da ragazzo assistevo alla folle corsa del mondo, scandiva, lapidario e tragico come ogni volta, I viaggi, la morte, e si accordava a una certa avversione per il viaggio a sé stante, dichiarata in alcune lettere a Goffredo Parise, amico di una vita, compagno di scrittura, di versioni del mondo.

L’erranza, la smania nomade, ebete, come fuga dalle inferenze del pensiero e approdo all’aperitivo uno e trino; sono queste le pratiche – ataviche, sacralizzate – ora al vaglio di una nuova idea di contemporaneo (se è vero che bisognerà starsene un po’ più fermi, silenti, pensanti), e suonano, in contrappunto, come occasione di immersione nella vastità dell’immaginazione, punto fermo da cui si potrà ripartire guardando magari con occhi nuovi anche al momento della bibita, smeriglio rossastro in apoteosi di ghiacci o dolci, chiari e freschi sangui prefiguranti lì nel vetro le vertigini del tramonto oltre i tetti, entro cui fissare malinconie, prospettive, possibilità d’esserci.

ACCADE ALLORA che per istinto di sopravvivenza, sopravvivenza di questa indispensabile immaginazione, che non è altro che immaginare il mondo cioè verificarlo, si trovi la via per perpetuarlo, perpetrarlo nella miriade di visioni che incarnano il nostro desiderio, il nostro desiderio di esserci, constatarci. Concerti, letture, dibattiti in videoconferenza, e il cinema ovviamente, su piattaforme, testimoniano di un adattarsi quasi evoluzionistico della cultura: un ampio catalogo dei film di «Fuori Orario» compare su Raiplay; qualcosa anche su Prime (inaspettato il Matinee di Joe Dante), su Netflix (tutto Miyazaki); festival e rassegne migrano on-line in attesa di poter tornare nei teatri, nelle sale, anche nei foyer a rimirarsi nei bicchieri rubicondi.

INSOMMA, tecniche di sopravvivenza, a cui aderisce anche la rassegna «Registi fuori dagli schermi»: e l’occasione è buona per tornare su cose scomparse o mostrarne di inedite, non rinunciando al confronto con i registi, primo dei quali sarà Mario Martone il 30 aprile, autore dell’Odore del sangue (visibile in streaming nei giorni precedenti), che sarà ospite del canale Facebook dell’Apulia Film Commission.

Uscito nel 2004 e presentato alla Quinzaine des realisateurs del Festival di Cannes di quell’anno, il film andava a coincidere con la riflessione corporale e l’esposizione senza censure della sessualità che si stavano svolgendo in quegli anni, condotte da Vincent Gallo l’anno prima in concorso a Cannes con The Brown Bunny e proseguita da Bruno Dumont qualche mese dopo, a Venezia, in Twentynine Palms, mentre nel 2005 uscirà Il gusto dell’anguria di Tsai Ming-liang, sfogo vitalista della fisicità, del pornografico. È il corpo, la nudità, l’erta sessualità mostrata agli albori del nuovo millennio, con esiti straordinari soprattutto nei casi di Gallo e Martone, i quali ne rivendicano il portato ancestrale, morboso, ontologico – che spasima proprio nella carne dell’immagine (del significante) – e la rinsaldano al Novecento di Bataille, Genet, e di Parise appunto, di cui Martone riprende un’inquietudine perpetua, l’urlo imploso, il dolore innominabile ma serpeggiante in ogni gesto dei protagonisti e dal contesto chiaroscurale tra città, interni borghesi e la campagna così trepida.

C’È UN LEGAME indissolubile nel film, una simbiosi condotta in virtù dei gradi di luce, di trasparenza, tra questo dolore e i luoghi in cui esso si manifesta o cerca di esorcizzarsi: luce mattutina, ferma, sopita, bianca di lenzuola e di brezza fuori; l’urlo lontano, sempre presente, delle rondini o il brusio della pioggia, sono il correlativo oggettivo di una sofferenza lancinante e senza rimedio, senza ragione, legata a qualcosa di oscuro, ctonio, a una malattia inscritta nel sorgere della vita, nell’insorgere del corpo, del sesso; sono l’odore del dolore di cui è intrisa ogni immagine, ogni sequenza del film, anche quella iniziale, nello scorcio marino, scoglioso, assolato, scorticato da De Andrè.

QUEI CORPI nudi, così bianchi e liberi portano addosso lo stigma tumido della morte, vapore sangueo sul corpo di Lù così vivida nella rapsodia di luce e acqua marina, prefigurazione di quello di Silvia segnato da stigmate sotto i neon: c’è anche nell’aria più sospesa ed estatica una traccia conturbante, morbosa (come i sogni di Carlo), come di un mortifero sonante, in sintonia con Schumann e Chopin, come a Venezia, nella stanza d’albergo mentre i due litigano e Carlo quasi uccide Silvia ed entrano schegge di luce biada da fuori a innervare la danza disperata tra eros e thanatos, e Silvia dice «Facciamo l’amore: adesso sarebbe tanto più bello» a cui Carlo risponde sgomento «Tanto più bello cosa? Stavo per strangolarti» e lei: «Appunto».

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