«La tela a olio mi era diventata talmente ostile che per trovare una certa pace con me stesso ho dovuto strapparla e questi pezzi strappati li ho fatti diventare degli oggetti che chiamavo quadri». Così Salvatore Scarpitta ricordava il cruciale snodo di fine anni cinquanta in cui anche lui come tanti altri si era ingaggiato in una resa dei conti con quel supporto. In realtà quel sentimento di ostilità così dichiarato non va considerato come rivolto all’oggetto in sé ma alla passività a cui è stato costretto in secoli di pratica pittorica. Scarpitta come pochii altri avvertiva tutte le potenzialità custodite dalla tela in sé, che aprivano a «una forma di realtà maggiore» (parole sue).

Nel 1957 l’artista, nato a New York da padre siciliano e madre russo-polacca ma attivo in quegli anni a Roma, aveva iniziato «a strappare le tele nel tentativo di “guarire” dalle esperienze belliche», scrive Luigi Sansone, autore del Catalogo ragionato della sua opera. Le strisce strappate, tra le mani di Scarpitta diventavano come bende avvolte e annodate attorno al telaio, trasformatosi così quasi in metafora di una barella. Erano nati gli Extramurals, esposti per la prima volta a La Tartaruga, nell’aprile 1958. Quella mostra segnò un punto di svolta per Scarpitta: i suoi lavori furono intercettati dal radar di Leo Castelli, che già nel gennaio 1959 organizzava una personale nella galleria di New York.

Ci sono voluti oltre settant’anni per vedere di nuovo Scarpitta a Roma, città della sua formazione. Merito della bella mostra proposta dalla galleria Mattia De Luca: una trentina di opere estremamente rappresentative. Tra gli spazi di Palazzo Alberoni Spinola, sede della galleria, torna a vibrare quello strappo di fine anni cinquanta: gli inizi vanno nella direzione di tele estroflesse, anticipando addirittura di pochi mesi la Superficie nera, opera-svolta di Enrico Castellani. È del 1958 il piccolo To Cy dedicato a Cy Twombly, con cui Scarpitta condivideva lo studio in via Margutta, uno degli americani a Roma.

«Ho mantenuto l’attenzione sulla tela, per far sì che fosse sempre protagonista»: per questo la superficie non è tenuta tesa come in Castellani, ma sembra quasi gonfiarsi dal di dentro, più fisica e suggestiva. La tela, che è tela grezza, non è addomesticata e imbrigliata nel gioco architettonico delle tensioni, ma lasciata libera di assestarsi, come dice l’artista, «nel suo modo di presentarsi e di essere». Più che un processo di governo dell’opera c’è una volontà di immedesimarsi con il materiale, come svela, in mostra, un’altra tela estroflessa, Dimensione, idem 1958, di misure quasi monumentali. Qui affiora con chiarezza un’intelaiatura scheggiata e spezzata: Scarpitta ricorreva a pezzi contorti di cerchioni di bicicletta, che producevano grinze e gibbosità sulla superficie, che appare increspata, quasi mossa da un’energia vitale sottostante.

Salvatore Scarpitta, «Tensione», 1958
Salvatore Scarpitta, «Tensione», 1958

Nei lavori dell’artista, che pur si era formato nel clima inebriante e antagonistico dell’astrattismo romano dei secondi anni quaranta, prevale sempre un’attrazione per la concretezza del dato di realtà. Come accade in Tovagliolo, tela bendata che sul retro reca la scritta «da Salvatore a Naride». Naride era il proprietario dell’Osteria Menghi in via Flaminia, dove Scarpitta e sodali si trovavano a mangiare, spesso a credito, o pagando il conto con disegni volanti sui tovaglioli. Anche la lunga stagione americana avrebbe confermato la vocazione a fagocitare la realtà portandola dentro il recinto dell’operare artistico. Lo documentano in mostra due importanti lavori sulle auto da corsa, passione trasmessagli dal padre, o le sculture totemiche ispirate alle canoe dei nativi americani, assemblages di oggetti di uso quotidiano applicati su barelle di legno.

Insieme alla mostra è di prossima pubblicazione un libro-catalogo con un saggio di Luigi Sansone e un’interessante ricostruzione, autore Peter Sanson Miller, delle interferenze americane negli ambienti artistici romani dell’immediato dopoguerra.