Stranieri per decreto nel proprio paese
25 Aprile Dall’adesione ai gruppi antifascisti alla scelta partigiana. Il contributo degli ebrei alla Resistenza
25 Aprile Dall’adesione ai gruppi antifascisti alla scelta partigiana. Il contributo degli ebrei alla Resistenza
La partecipazione degli ebrei italiani alla Resistenza sconta la peculiarità della condizione dell’ebraismo peninsulare. Emancipate definitivamente durante l’Ottocento dalle precedenti interdizioni giuridiche, le comunità israelitiche erano divenute parte integrante, sul piano politico, sociale e culturale, del tessuto civile dell’Italia unitaria. Il grado di integrazione dei loro membri, e quindi il patriottismo nei confronti di una nazione vissuta come parte imprescindibile della propria identità, costituiva quindi la nota dominante di un comune sentire. La partecipazione alle imprese risorgimentali, all’attività politica in età liberale, alla Grande guerra e, in parte, anche al medesimo fascismo, poco o nulla lasciava presagire della catastrofe che, a partire dal 1938, colpì invece come una sciagura collettiva tutti gli ebrei italiani.
Per molti tra di loro, l’introduzione delle leggi razziali e l’insieme di provvedimenti discriminatori, che precedettero di qualche anno le deportazioni, queste ultime avviatesi quasi immediatamente dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca, comportò una riconsiderazione sia della propria specificità identitaria sia una riflessione sulla necessità di riconquistare l’emancipazione giuridica e sociale negate dal regime mussoliniano.
Gli organismi comunitari dell’ebraismo italiano, peraltro, non riuscirono nel tentativo di dare una risposta unitaria al brusco mutamento del clima politico, così come al crescere e al sommarsi delle avversità. Dopo il crollo del sistema istituzionale e amministrativo del Regno d’Italia, a seguito della firma dell’armistizio, gli ebrei si trovarono abbandonati a sé, consegnati alla brutale volontà dei nazisti e del neofascismo repubblichino. Nel mentre quest’ultimo si incaricava di marchiarli in quanto membri della «razza ebraica», e come tali «stranieri», aggiungendo che «durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica», il circuito delle persecuzioni istituzionali si trasformò in macchina per la distruzione delle vite. Da questo momento l’ebraicità diventava sinonimo di clandestinità: fuga, dissimulazione, metamorfosi civile, assunzione di ruoli fino ad allora mai pensati.
Le alternative erano pressoché nulle, come drasticamente si incaricarono di dimostrare i tragici fatti della razzia tedesca a Roma, avvenuta sabato 16 ottobre del 1943, quando 1.259 persone furono catturate e quindi perlopiù avviate ad Auschwitz. Dopo di che, per i circa quarantacinquemila ebrei sparsi nella Penisola, fatta eccezione per quei pochi che si trovavano nelle province meridionali già liberate dagli Alleati, la situazione era accomunata dall’insostenibilità. La quasi totalità di essi, ossia più del 90%, risiedeva nel Settentrione e nel Centro d’Italia, quasi sempre nelle aree urbane, con forti concentrazioni tra Roma, Milano e Trieste, svolgendo, o avendo svolto, attività professionali legate alla vita metropolitana. L’età media era di trentacinque anni, dato che concorreva, insieme ai precedenti, nel rendere meno plausibile un impegno militante e, soprattutto, un coinvolgimento da subito in attività militari e di combattimento. Si aveva a che fare, inoltre, con interi nuclei familiari, dove si intersecavano le diverse classi d’età. La strada della lotta partigiana, che avrebbe visto un migliaio di ebrei coinvolti, implicava, come ostacolo aggiuntivo, non solo l’occasionale allontanamento dalla famiglia ma il suo abbandono in un Paese che si era fatto ostile.
L’adesione dell’ebraismo italiano alla Resistenza, fatto idealmente corale, seguì quindi percorsi differenziati e non sempre prevedibili. Alcuni nuclei di giovani e meno giovani, come a Torino, erano stati antifascisti per scelta ben prima del disastro causato dalla leggi del 1938. Nella ex capitale sabauda le spinte avverse al regime avevano trovato un terreno fertile. Il fatto stesso che la Resistenza militare si ancorasse da subito in alcune zone del Piemonte e della Valle d’Aosta, agevolò quindi la scelta di entrare a fare parte delle prime bande.
Così nel caso di un Primo Levi, un Leone Ginzburg o un Emanuele Artom, entrambi, a modo loro, esempio di una scelta indotta dalla consapevolezza della necessità non solo di fuggire e ripararsi individualmente ma di reagire in base ad una identità ebraica che veniva ora intesa come vera e propria «dottrina della moralità». Alla necessità di non subire passivamente l’evoluzione dei fatti, cosa che divenne definitivamente chiara dopo i primi massacri nazisti e l’avvio delle deportazioni, soprattutto a Milano, Trieste e a Roma, si associò anche la maturazione di un’opposizione di principio ai cascami del collaborazionismo neofascista così come alla presenza, attivamente operante, del dispositivo nazista di annientamento.
La lotta contro gli uni e l’altro si ricollegava ora ad un complesso progetto, quello che veniva delineandosi tra le formazioni della Resistenza, e che rimandava alla necessità di essere senz’altro parte diretta nella lotta contro le forze di occupazione ma anche soggetti attivi in un ben più ampio percorso di costruzione di una nuova idea di patria, liberata dall’asfissiante nazionalismo razzista e sciovinista degli ultimi vent’anni. Il rimando alla giustizia sociale, in questo caso, sembrava riecheggiare alcuni aspetti della propria formazione culturale ebraica. Se in uomini e donne culturalmente e politicamente motivati come Umberto Terracini, Leo Valiani, Eugenio Curiel, Vittorio Foa, Liana Millu, Enzo ed Emilio Sereni nonché Elio Toaff il nesso tra fascismo, liberticidio e antisemitismo risultava già chiaro a prescindere dai drastici sviluppi assunti con l’autunno del 1943, per gli altri divenne invece definitivamente intelligibile in quel mentre. Da questo insieme di fattori non derivò, come in altri parti d’Europa, soprattutto quella orientale, la costituzione di nuclei combattenti autonomi. Non lo permise l’esiguità numerica della componente ebraica, la sua dispersione regionale, la scarsa propensione alle armi (tra l’altro essendo stato interdetto, con il 1938, l’arruolamento nel Regio esercito) ma anche il repentino crescere di una vivace intelaiatura di gruppi combattenti, ai quali gli ebrei italiani si associarono, ed in particolare con le formazioni di Giustizia e Libertà e alle brigate Garibaldi. Significativo poi il fatto che uomini come Enzo Sereni, proveniente dalla Palestina britannica, o Gianfranco Sarfatti, riparato in Svizzera, scegliessero di tornare nell’Italia occupata per partecipare alla lotta di Liberazione.
Un ulteriore tratto distintivo, nei seicento giorni di lotta, fu lo sviluppo di una rete clandestina di aiuto, la Delegazione assistenza agli emigranti (nata già nel 1939), che si occupava, soprattutto tra Roma e Genova, di aiutare economicamente e logisticamente i perseguitati, una parte rilevante dei quali ebrei di origine straniera. Un’attività simile era svolta dal Comitato di assistenza ebraica operante in Piemonte. L’una e l’altro, in diversi casi con il concorso delle autorità ecclesiali diocesane, fecero da tramite con le formazioni partigiane. Il tributo di sangue, tra gli ebrei italiani, fu quindi alto. Almeno un centinaio perì sui campi di battaglia e tra i correligionari deportati, questi ultimi ammontanti a 8.529, italiani e stranieri. Ebreo fu il più giovane partigiano caduto, il tredicenne Franco Cesana di Mantova, così come sette furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria: Eugenio Calò, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Sergio Forti, Mario Jacchia, Rita Rosani e Ildebrando Vivanti.
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