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Storie di videogiocatori, tra vita e schermo

Storie di videogiocatori, tra vita e schermo

Pagine «Lavorare con i videogiochi», da Editrice Bibliografica

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 11 giugno 2022

Viola Nicolucci è psicologa e psicoterapeuta con un background in neuropsicologia clinica. Non «nasce» videogiocatrice. Ma questo non lo racconta nel suo libro Game Hero. Viaggio nelle storie dei videogiocatori di recente pubblicazione per Ledizioni. Lo ricaviamo piuttosto dall’altrettanto recente libro di Francesco Toniolo su Lavorare con i videogiochi (Editrice Bibliografica) dove, nel capitolo riservato alle professioni che si interfacciano col videogioco da un punto di vista psicologico e didattico (docenti, psicologi, ricercatori), Toniolo lascia uno spazio a disposizione a Nicolucci per parlare di se stessa e di come sia arrivata ad occuparsi di Cyberpsicologia: cioè dell’impatto delle tecnologie digitali – in particolare videogames – su singoli, gruppi e comunità.

Lì Nicolucci scrive: «io non ho mai videogiocato seriamente. Con la maternità, i videogiochi hanno spalancato le finestre di casa senza sforzo. Se, nonostante i disturbi dell’apprendimento, mio figlio riusciva così bene nei videogiochi, lì dentro ci doveva sicuramente essere qualcosa di interessante e io dovevo scoprire cos’era. È cominciato così un percorso di studi personali, per imparare la psicologia dei videogiochi e restituirla al pubblico». Già questa storia avrebbe tutti i crismi per poter far parte delle dieci storie di videogiocatori e videogiocatrici raccontate nel suo libro.

Che, per lo più, sono storie «normali», storie che apparentemente potremmo leggere anche in altri contesti, ma che diventano straordinarie perché escono dagli stereotipi legati ai videogiochi e ai videogiocatori. Storie di condivisione di passioni tra padri e figlie, di profughi afghani che diventano presidenti di compagnie di sviluppo videoludiche, di modi per superare le differenze di genere, di orientamento sessuale, di età. Sicuramente la storia emotivamente più toccante è la prima: quella dell’adolescente norvegese Mats Steen che, affetto dalla malattia di Duchenne che progressivamente lo priva della mobilità, si crea una seconda vita e amici all’interno di World of Warcraft e, quando viene definitivamente sconfitto dal morbo, da tutta Norvegia e da tutta Europa arrivano a tributargli l’ultimo saluto i componenti della sua gilda, anche grazie ad una raccolta fondi che permettesse a chiunque lo desiderasse di partecipare al suo funerale.

La riflessione presente nel libro non può fare a meno di considerare l’impatto della pandemia sulla vita delle persone e, in particolare, dei videogiocatori e delle videogiocatrici. Nicolucci sottolinea come i videogiochi abbiano fornito una valvola di sfogo per le persone costrette forzatamente a restare in casa durante il lockdown, come abbiano consentito di allacciare o riallacciare relazioni affievolite e potenzialmente tossiche all’interno del nucleo familiare costretto alla convivenza prolungata.

Come scritto all’inizio non sono storie eccezionali: lo diventano perché nell’immaginario comune il videogioco è qualcosa che ha a che fare unicamente con adolescenti maschi sovrappeso e con scarse interazioni sociali. Lo diventano perché troppe volte all’interno delle comunità videoludiche l’immagine stereotipata del videogiocatore tende ad identificarsi a quella proposta dai media generalisti, con scarsa considerazione o attacchi espliciti al pubblico ed alle professioniste di sesso femminile. E questi pregiudizi limitano le potenzialità del videogioco legate alla socializzazione e all’apprendimento. Proprio quelle caratteristiche da cui, secondo detrattori, i videogiocatori sarebbero distratti.

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