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Storie di vallate che profumano di formaggio

Eventi Per produrre buon formaggio il pascolo è decisivo, solo la biodiversità della vegetazione può arricchire il latte, certo non i mangimi fatti con una sola specie

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 19 settembre 2019

Cheese non è una fiera, né una mostra mercato. È la manifestazione che racconta l’orgoglio del formaggio naturale. Il titolo della dodicesima edizione, in programma a Bra (Cuneo) da venerdì 20 a lunedì 23 settembre, è Naturale è possibile: a Slow Food, che la organizza, serve a disegnare un percorso che, partendo dal latte crudo, approda ai formaggi prodotti senza utilizzare «bustine» (batteri selezionati in laboratorio e riprodotti industrialmente da pochissime multinazionali), per dimostrare che essi sono più ricchi di biodiversità e autentica espressione dei territori di origine. A partire dall’edizione del 2017, infatti, per Slow Food è diventato fondamentale focalizzare l’attenzione del pubblico (oltre 300mila persone), dei media e delle istituzioni sul ritorno a questo stile di produzione, che richiederà forse tempo ed esperienza, ma non è affatto irrealizzabile.

ELEMENTO FONDAMENTALE per produrre un formaggio naturale è il pascolo. «Gli animali sono erbivori. Nonostante le distorsioni nell’alimentazione introdotte con l’allevamento intensivo, questo processo non ha ancora modificato la loro genetica – sottolinea Andrea Cavallero, già professore di Alpicoltura al dipartimento di Scienze Agrarie Forestali e Alimentari dell’Università di Torino. «Per questo, il pascolo è importante per lo stato di salute dell’animale. Un’alimentazione equilibrata deve prevedere molte specie botaniche, e quindi graminacee e leguminose ma non solo. Tutte le specie foraggere apportano sostanze che, nel loro insieme, garantiscono un maggiore benessere, che si conferma nella longevità degli animali allevati al pascolo con elevati consumi di erbe polifite, rispetto a quelli che mangiano solo trinciato di mais e mangimi», spiega Cavallero.

IL PASCOLO, LA QUALITA’ DELL’ERBA, IL BENESSERE animale, inducono anche una migliore qualità del latte e dei derivati: «Dalla pianura alla collina, passando per la media montagna fino agli alpeggi, il pascolo cambia, con un crescendo di qualità che dipende dalla ricchezza e dalla biodiversità della vegetazione – spiega Cavallero -: le sostanze che l’animale ricava direttamente dall’erba o trasforma attraverso il suo metabolismo arricchiscono i latti. Questo non può accadere con mangimi composti integrati o fieni monofiti, cioè composti da una sola specie».

Quando l’animale utilizza pienamente il pascolo polifita, anche i formaggi – e tutti i derivati caseari – presentano caratteristiche di gusto decisamente più gradevoli. Non a caso, dice Cavallero, «i più famosi formaggi sono nati in montagna». I benefici non riguardano solo l’aspetto organolettico, ma anche l’apporto di «sostanze benefiche per il nostro organismo che le consuma, con presenza di polifenoli, terpeni, caroteni, vitamine, molecole volatili degli acidi grassi a catena corta, oltre agli isomeri coniugati dell’acido linoleico (CLA) e di altri acidi grassi pregevoli dal punto di vista nutraceutico come gli Omega 3», suggerisce ancora Cavallero.

È IN QUESTA CORNICE CHE OGNI VALLATA può essere rappresentata da un formaggio. Guardando al solo Piemonte, tra i Presìdi Slow Food è presente una straordinaria diversità: c’è il toumin dal Mel, formaggio simbolo della Val Varaita, terra di piccoli borghi, santuari, cappelle e boschi fittissimi, tra cui l’Alevè, il bosco di pino cembro più esteso delle Alpi. Il toumin ha forma cilindrica, diametro di circa 10 cm, scalzo basso (1, 2 cm) e un peso che si aggira sui 200 grammi. La pasta è morbida, bianca, con occhiatura rada, quasi inesistente. I toumin sono pronti dopo 3 giorni, ma esprimono il meglio dopo 5 o 6 giorni
La val Grana, invece, è terra di Castelmagno. Le prime notizie sulla sua produzione risalgono al XII secolo, riportate in una sentenza del 1277 che già impone, per l’affitto di alcuni pascoli dal Marchese di Saluzzo, un versamento non in denaro ma in una certa quantità di forme. È prodotto col latte di vacche condotte in malghe situate a quote superiori ai 1600 metri. Stagiona almeno 120 giorni. Il Castelmagno ha una forma cilindrica con dimensioni variabili da 15 a 25 centrimetri di diametro, mentre l’altezza va dai 12 ai 20 centimetri. Ogni forma pesa da 5 a 7 chilogrammi.

TERZO ESEMPIO, LA ROBIOLA DI ROCCAVERANO classica, ovvero quella prodotta esclusivamente con latte crudo di capra. «I fiori, le erbe e la flora batterica dei pascoli si trasferiscono nel formaggio al punto che, come per i vini, è possibile definire una vera e propria mappa di cru».

È questa ricchezza quella che Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità dal 2004, vuole far riconoscere: «Se io faccio pascolare gli animali in alpeggio, e produco un formaggio a latte crudo, trasferisco aromi al prodotto finale. Se però faccio pascolare gli animali in alpeggio, e poi aggiungo fermenti selezionati, per garantirmi un gusto base, che incontri il favore medio dei consumatori, sto omologando e banalizzando il formaggio». Questo è quanto sta avvenendo, ad esempio, in Valle d’Aosta, con la selezione dei migliori fermenti tra i produttori della fontina, moltiplicati e distribuiti tra tutti i produttori. «È come costruire un’autostrada a sei corsie in una favela – suggerisce Sardo -: un intervento capace di sconquassare completamente il sistema. Un’operazione di omologazione non necessario».

PER DARE UN NUMERO: OGGI I FORMAGGI e i latticini saliti a bordo dell’Arca del Gusto di Slow Food (che raccoglie i prodotti che appartengono alla cultura, alla storia e alle tradizioni di tutto il pianeta) sono oltre 450 da tutti i continenti, e 102 i Presìdi dedicati al mondo lattiero e caseario.

I pascoli, gli animali e le terre alte, i Presìdi e i formaggi a latte crudo esistono solo se continua a vivere la pastorizia. Marta Fossati, 37 anni, è una giovane che ci crede. Dieci anni fa è tornata a Sambuco, un borgo di 70 abitanti, a 1.200 metri, in Valle Stura, tra Alpi Cozie e Marittime. Figlia d’arte, figlia di un pastore, oggi ha coinvolto anche il marito, Luca, un fotografo. «Il pascolo è fondamentale – racconta -: io sono cresciuta con l’idea che l’allevamento è quello. Da quando si può (a primavera) a finché si può (nel tardo autunno), l’animale pascola. Anche la scelta degli animali dipende da questo, devono essere in grado di arrampicarsi sui pendii ripidi che ci circondano. Il latte cambia parecchio, lungo le stagioni, ma anche da versante a versante della montagna». E questo cambia il formaggio.

«IL PASCOLO RAPPRESENTA IN TUTTO IL MONDO la forma più antica, più pratica e più a basso impatto per l’allevamento. Esiste differenza, tra forma di pascolo legate al nomadismo, o transumante. Il nomadismo è la ricerca del pascolo senza una precisa destinazione, mentre nella transumanza ci sono cicli ripetitivi – racconta Nunzio Marcelli, che ad Anversa gli Abruzzi (Aq) ha fondato alla fine degli anni Settanta l’azienda La Porta dei Parchi . «Questo ha consentito processi di accumulazione, e di costruire comunità che vivono su una direttrice, che sarebbero i Tratturi». Il pascolo, secondo Marcelli, rappresenta, infatti, «un marcatore territoriale, grazie ad analisi spettrografie che possono individuano il formaggio per dove è prodotto, ma è anche uno strumento di salvaguardia ambientale. «Nell’Appennino centrale, qui in Abruzzo, i sentieri di montagna non sarebbero praticabili, se non fossero attraversati dagli animali quotidianamente».

LA PORTA DEI PARCHI HA AVUTO IL MERITO di ripristinare le pratiche del pascolamento, di organizzarle in maniera sistemica, tra i 450 e i 700 metri dall’azienda, ed in montagna in estate, portando gli animali fino ai 2mila metri. «Questo comporta un maggior impegno in termini di manodopera, che nel nostro caso è prevalentemente straniera, rumena, macedone, albanese – sottolinea Marcelli – e riconosco che la nostra è una zootecnica pastorale a trazione rumena: senza di loro non ci sarebbe questa opportunità». Marcelli è tra i promotori della Rete italiana della pastorizia (APPIA, retepastorizia.it), un’associazione nata per promuovere il riconoscimento istituzionale della pastorizia. Il futuro dei pastori dipende dall’accesso alla terra.

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