Rievocare la flora della Sardegna con un’installazione sarebbe un’impresa ardua per qualsiasi artista. Ma, senza ambire al sontuoso progetto di giardino botanico con il quale il Museo Egizio di Torino intende offrire prossimamente un «viaggio» nel paese del Nilo, qualcosa di più decoroso di un’«aiuola» con quattro arbusti e qualche sterpaglia poteva essere immaginato. Eppure, questo avvilente groviglio di piante che di aromatico non hanno più nulla rappresenta, nell’androne del Museo archeologico di Napoli (Mann), l’invito a esplorare l’esposizione Sardegna Isola Megalitica (fino all’11 settembre), ultima tappa di un circuito internazionale promosso dalla Regione autonoma della Sardegna con il Museo archeologico di Cagliari e la Direzione regionale musei, nell’ambito del piano di heritage tourism finanziato dall’Unione europea. Come pretendere, poi, che un raffazzonato modellino di nuraghe in polistirolo, sistemato al di là di siffatta «vegetazione», possa anche lontanamente ricordare Su Nuraxi, la reggia nuragica di Barumini?

SE LO STUPORE PROVOCATO dalle «torri» di pietra che, a migliaia, puntellano il paesaggio della Sardegna da Nord a Sud, viene svilito da simile trascuratezza, alcuni manichini agghindati con i costumi del carnevale barbaricino aggiungono alla presentazione un tocco di folclore kitsch, assai disturbante per chi ritiene che un museo non debba somigliare a un bazar. D’altra parte, accostamenti di questo genere non sono nuovi al Mann, dove le mostre che non hanno legami scientifici o pedagogici con le collezioni archeologiche – da ultima, quella sui fumetti manga allestita nella sala del plastico di Pompei – pullulano. L’illusione di poter scoprire l’autentica storia di una terra di cui si favoleggia molto (talvolta troppo) svanisce nel Salone della Meridiana.

Gettando lo sguardo oltre la stele con quattro mammelle dalla necropoli di Serra Is Araus (Oristano) – lastra di chiusura di una tomba risalente alla seconda metà del IV millennio a.C. – ci si accorge da subito che la rassegna curata da Federica Doria, Stefano Giuliani, Elisabetta Grassi, Manuela Puddu e Maria Letizia Pulcini con il coordinamento di Bruno Billeci e Francesco Muscolino (l’organizzazione generale è di Villaggio Globale International), costituisce un pot-pourri neanche tanto ben confezionato. Il megalitismo, infatti, riguarda in senso stretto menhir, cròmlech, dolmen e altri monumenti della preistoria eretti con blocchi di pietra di grandi dimensioni, tagliati grossolanamente.

ARCHITETTURE PECULIARI della Sardegna come nuraghi, tombe di giganti e templi a megaron, pozzo e rotonda sono invece realizzate con la tecnica a filari. Certamente può individuarsi sull’Isola un rapporto tra megalitismo e cultura prenuragica, seppure – con compromessi rari tra ipogeismo e megalitismo – in quest’ambito prevalga l’ipogeismo (domus de janas). Per quanto concerne il mondo nuragico, è nelle imponenti tombe di giganti con stele ed esedra che si può riscontrare l’eredità megalitica (talora anche nel «corridoio» funerario).

NELLA VASTITÀ DELLO SPAZIO seicentesco, l’allestimento ideato da Andrea Mandara con Claudia Pescatori risulta alquanto dispersivo e non agevola la comprensione di un percorso che segue un ordine cronologico, dal primo megalitismo (IV – III millennio a.C.) all’Età del Ferro (metà X-metà VI secolo a.C.), con una piccola appendice romana. Smarrito il filo del tempo, al visitatore non rimane che raccapezzarsi tra vetrine e pannelli facendosi guidare più dalla curiosità per oggetti «insoliti» che da un racconto coerente. Nel rivelarsi una sommaria sintesi dell’archeologia preistorica e protostorica della Sardegna, l’esposizione non riesce a valorizzare le «storie di pietra» di cui vorrebbe evidenziare l’originalità.

È questo il caso, in particolare, delle grotticelle artificiali a uso sepolcrale note come «case delle fate», rappresentate in mostra da modesti calchi di porte e pareti scolpite con corna bovine. Alla stessa stregua, gli edifici destinati al culto delle acque sono illustrati tramite disegni tecnici difficilmente interpretabili. Benché suggestive, le foto dei monumenti realizzate da Archeofoto Sardegna – stampate in grande formato o diffuse su supporti digitali – non possono compensare l’inefficacia di una comunicazione annunciata invece come innovativa. Persino le didascalie dei reperti sono inadeguate a un pubblico di non specialisti: quando si legge «concio sagomato a T», senza che dell’oggetto esibito venga chiarita la funzione di incastro nelle murature in opera isodoma di nuraghi e strutture templari, si ha quasi l’impressione di partecipare a una caccia all’enigma. Stesso discorso per la «pintadera a forma piramidale», di cui niente è svelato malgrado questa tipologia di stampi di terracotta con incisioni geometriche – probabilmente finalizzati alla decorazione di pani e tessuti – si sia tramandata almeno fino all’epoca medievale (soprattutto nella versione a disco).

SE È QUESTIONE di heritage tourism, non sarebbe valsa la pena segnalare qui anche le tracce lasciate dalla pintadera nell’arte sarda contemporanea? A caratterizzare l’Età del Ferro non potevano mancare alcuni dei celebri bronzetti nuragici (Fulvia Lo Schiavo li retrodata al Bronzo finale), quasi impercettibili tra i pomposi affreschi del soffitto del Salone e il solco del rinomato orologio solare. Provenienti dai più importanti santuari dell’Isola, dove furono depositati come ex-voto, ai guerrieri e agli arcieri con elmo dalle lunghe corna spetta il compito di trasmettere la religiosità di un popolo che si autorappresentava attraverso la plastica minuta.

Il salto culturale verso la statuaria di proporzioni «colossali» si compirà, sempre nell’Età del Ferro, con i Giganti di Mont’e Prama. Dopo aver viaggiato dalla Sardegna a Berlino e da lì a San Pietroburgo e poi a Salonicco, arriva a Napoli uno degli esemplari del complesso scultoreo che, dal 2014, alimenta la narrazione dei «grandi successi» del ministro Franceschini. Per il trasporto della statua, oltre a un cospicuo finanziamento (360mila euro a tappa), è stato necessario progettare una sofisticata e possente «gabbia».

Separato dall’altra ventina di «giganti» già restaurati e inopportunamente distribuiti tra il Museo archeologico di Cagliari e il Museo civico Giovanni Marongiu di Cabras – nel territorio dove le prime statue vennero rinvenute nel 1974 in un’area funeraria –, il «pugilatore» di calcare, alto 168 centimetri, campeggia solitario vicino al balcone dal quale è rocambolescamente entrato con l’ausilio di una gru. Taluni lo osservano con senso di straniamento, altri, indubbiamente, con emozione.

D’ALTRO CANTO, il battage pubblicitario attorno ai «guerrieri nuragici», amplificatosi con la nascita nel 2021 della Fondazione Mont’e Prama, ha fatto sì che la loro fama raggiungesse il continente ben prima della trasferta (in base a un accordo appena siglato tra la stessa Fondazione e il Mic, dopo Napoli, la statua raggiungerà i sei «giganti» esposti a Cabras). Ci si chiede, tuttavia, quale possa essere il messaggio veicolato da una simile operazione, che – vista la decontestualizzazione «totale» del monumento – di culturale ha davvero poco. Ostentati dalle autorità locali come simboli identitari che hanno «rivoluzionato» la storia del Mediterraneo, i «giganti» vengono dunque trasformati in feticci al servizio di interessi politici ed economici. Nemmeno il catalogo edito da Skira (pp. 224, euro 38), i cui contributi sono di qualità disomogenea, colma le lacune (e le storture) della mostra.

Infine, l’imbarazzante scelta del Mann di ospitare nelle stesse date anche il percorso esperienziale Nuragica, il quale propone un video immersivo al limite del fantasy assieme a ricostruzioni di polistirolo e altri materiali in scala 1:1 (alcune grottesche, altre – come quelle relative all’abbigliamento del «popolo di bronzo» – maldestramente ispirate a studi di riconosciuto valore scientifico) contribuisce a rafforzare la linea programmatica dell’Assessorato regionale al turismo della Sardegna, il quale della becera commercializzazione del passato indigeno, rivisitato con redditizie invenzioni, ha fatto la sua bandiera.