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Storie da un passato perduto, il «prontuario» della comicità

Storie da un passato perduto, il «prontuario» della comicitàElena Bucci e Marco Sgrosso in una scena di «Risate di gioia» – foto di Gianni Zampaglione

A teatro Elena Bucci e Marco Sgrosso portano in scena delusioni e successi nello spettacolo «Risate di gioia»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

Elena Bucci e Marco Sgrosso sono due attori bravissimi: ricchi di esperienze e ancora desiderosi di fantasia e di ricerca. Hanno lavorato nelle esperienze più interessanti della scena italiana da diversi anni, e dispongono quindi di un patrimonio non solo di creatività ma anche di pratica non comune, perfino fuori dagli stereotipi in cui ha finito per rifugiarsi una parte della ricerca tra Emilia e Romagna, nonostante il «faro» che Leo De Berardinis (più che il Dams bolognese forse) ha acceso a suo tempo da quelle parti.
Anche per questi motivi è lecito aspettarsi molto dall’ultima creazione dei due artisti (anche se Bucci ha una sorta di creatività continua nell’uso e nella riproposta di repertori di grandi artisti e sopratutto artiste di cui seguire e riproporre le orme). Tutto questo preambolo per spiegare le aspettative che il solo titolo del loro ultimo spettacolo attualmente in tournée (ancora oggi al teatro Vittoria), può suscitare: Risate di gioia. Sì proprio il film capolavoro di un ancor giovane Mario Monicelli che ha due protagonisti davvero eccezionali in Anna Magnani e Totò (lui avventuriero lei comparsa a Cinecittà, chiamata da tutti affettuosamente Tortorella). I due si illudono di entrare nel bel mondo che il boom economico (con le Olimpiadi e il televisore in tutte le case) fa sognare, ma finiranno malamente delusi.

Il titolo riecheggia il film di Mario Monicelli con Totò e Anna Magnani

INSOMMA un film, storico e decisivo, che ancora oggi dà i brividi per il suo mix di amarezza e risate. Bucci e Sgrosso, pur citando ripetutamente il titolo di Monicelli, trasformano quell’intreccio in una sorta di «calendario», o prontuario, della propria esperienza artistica. Dove risulta chiara la loro bravura (e viene il rimpianto allo spettatore per la loro sottoutilizzazione da parte dello sbilenco sistema italiano dello spettacolo) ma tutto scorre per i 90 minuti della rappresentazione in una sorta di «variazioni sul tema». I due attori mostrano di padroneggiare il proprio mestiere, abbondano le citazioni di altri loro lavori, ma finisce per prevalere un effetto quasi «galleria» sul mondo della rivista e dell’avanspettacolo.

OGNI TANTO emerge, robusto quanto malinconico, un po’ di rimpianto o di delusione provata dai due artisti, ma quasi a voler rendere più sicuro il binario dello spettacolo (e il suo effetto sul pubblico) l’articolazione di queste Risate di gioia marcia sui numeri di ognuno degli interpreti, con il peso di successi e delusioni provocate dal palcoscenico. I due artisti, poiché ne hanno i mezzi, dovrebbero proporsi meno contemplativi delle proprie capacità, e dare liberamente corpo a quanto evocano e citano. Perché altrimenti corrono il rischio che a prevalere sia il «catalogo» dei loro numeri, e che l’ombra di un «passato perduto» finisca col prevalere. Lo spettacolo sembra proporsi, magari involontariamente, come un «corso» di studi attraverso un catalogo, per quanto ampio, destinato a un pubblico di allievi, per quanto privilegiato. Il pubblico in sala non disdegnerebbe di partecipare in prima persona a quelle Risate di gioia tanto divertenti quanto tragiche svelate e articolate dal film di Monicelli, così che anche ogni spettatore ne possa riconoscere una parte nel proprio vissuto.

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