Come accade in molti casi, arriva prima la polemica del libro: il gesto personale prevale sul gesto estetico, il personaggio anticipa l’autore. Joseph Andras, l’autore del breve romanzo Dei nostri fratelli feriti (traduzione di Antonella Conti, Fazi, pp. 140, euro 16,00) ha rifiutato il Goncourt opera prima del 2016. Motivo: la letteratura non ha nulla a che spartire con la competizione. «La letteratura – scrive nella sua lettera di rifiuto all’Accademia – si tiene alla larga dai podi». Il libro diventa così un piccolo caso, e il suo autore, un trentunenne originario della Normandia fa parlare di sé: in tempi di galloni, c’è chi declina e resta senza.

In molti casi la polemica occulta il libro. È eccentrica rispetto all’oggetto del romanzo, e il suo autore diventa l’autore di un gesto più che lo scrittore di un’opera. Non nel caso di Joseph Andras:_il suo romanzo, infatti, è la prosecuzione, o l’anticipazione, del rifiuto del Goncourt. È una storia di antagonismo e di lotta, il recupero di una figura dimenticata della resistenza algerina. Racconta di Fernand Iveton, condannato a morte – e giustiziato – nel 1957 per aver progettato un attentato, sventato dalla polizia prima dell’esplosione della bomba. L’obiettivo di Fernand è chiaro: destabilizzare il potere ma senza spargimenti di sangue. Progetta che l’ordigno esploda in uno stabilimento vuoto, senza operai, senza rischi di morti o di feriti. Il paradosso è evidente: l’unico sangue versato sarà il suo. Il potere compie gesti esemplari, e l’esempio che vuol dare è che a pagare dovrà essere il corpo.

Quello di Jospeh Andras è un testo potente, con una scrittura percussiva, impietosa, resa con efficacia da una traduzione senza orpelli. Il corpo è il perno attorno a cui ruota questa che in fondo è la storia di un martirio. Fernand è torturato dalla polizia, e la scrittura raccoglie ogni suo grido: «Di cosa mai sono fatti gli eroi?», si chiede tentando di sopravvivere alla paura e alla sofferenza fisica. Gli eroi forse non esistono, sembra dire, esiste soltanto la violenza di chi vuole soffocare le rivolte. Di chi annullando i corpi pensa di guadagnarsi così anche l’oblio, di far scattare la ghigliottina della storia. Scrivere, sembra dire, Andras è raccontare quei corpi.

Il romanzo è breve ma notevole, e non a caso ricorda da vicino un altro libro notevole di qualche anno fa, Storia di un oblio di Laurent Mauvigner (Feltrinelli, traduzione di Yasmina Melaouah). Lì un uomo veniva portato nel magazzino di un supermercato e ucciso a sangue dalla vigilanza. Il potere, dicono questi romanzi, esercita il suo diritto di rendere invisibili i gesti e i corpi di chi lo contesta. Sottrarli alla vista, e al tempo stesso metterli alla gogna, è in fondo la fisiologia della repressione. La letteratura, per vocazione, rende visibile l’invisibile: è questa la sua resistenza, la bomba che ticchetta dentro l’alfabeto. Non c’è corpo che la scrittura non possa riesumare, o fantasma con cui non possa contestare il proprio tempo.