«Come ogni evento storico, anche il calcio ha vissuto e vive dinamiche di classe, un termine che oggi è considerato quasi alla stregua di tabù evocando spaventosi fantasmi marxisti e invece è quanto mai appropriato perché descrive la continua tensione sociale tra un ristretto gruppo dominante e una massa popolare e lavoratrice».
Questo è il filo conduttore del libro di Valerio Moggia Storia popolare del calcio. Uno sport di esuli, immigrati e lavoratori (Ultra Edizioni, euro 17,50).

«Il calcio nasce originariamente come sport popolare, senza regole precise e in forme che variano da regione a regione del mondo», continua Moggia, «la nascita del calcio intorno alle metà dell’Ottocento non è altro che l’istituzionalizzazione di quello sport da parte dell’alta borghesia inglese: vengono istituite regole, ufficializzate con atti firmati, come fossero dei contratti. In quel momento già si capisce che il football della borghesia non è più un gioco, ma, per quanto ancora amatoriale, un negozio. Successivamente, però saranno gli operai delle fabbriche a prenderne possesso, e subito inizieranno a spingere per essere pagati regolarmente. Non senza scontri e polemiche si arriverà al professionismo, e poi alle lotte sindacali per avere stipendi più alti, più diritti, la libertà di svincolarsi a fine contratto, raggiunta solo nel 1995».

Moggia, la lotta di classe esiste anche nel calcio d’oggi?
Oggi la componente di classe è andata chiaramente scemando a seguito del netto miglioramento delle condizioni di lavoro dei giocatori. Questo però vale solo ai livelli più alti del calcio, mentre nelle serie minori e nel calcio femminile la lotta di classe è più evidente. La nazionale femminile del Canada, detentrice dell’oro olimpico, nei giorni scorsi ha annunciato uno sciopero per ottenere parità salariale e di investimenti da parte della Federazione, e la nazionale maschile – che nel 2022 è tornata ai Mondiali per la prima volta dal 1986 – ha dichiarato il proprio appoggio alle colleghe.

Altro aspetto da lei sottolineato nel libro è che «il calcio, almeno nei paesi occidentali, nasce come sport amatoriale per un’élite, viene conquistato dalle masse popolari e gradualmente trasformato in uno sport professionistico, così l’élite decide di assumere il controllo dei club invece che di occuparsi del gioco vero e proprio, mentre con il tempo i calciatori si affrancano dal loro passato popolare e formano a loro volta una élite alto-borghese». E ai tifosi cosa resta?
Questa è una delle grandi questioni di oggi. Ai tifosi restano ovviamente gli spalti, l’idea di essere la vera essenza del club: giocatori, allenatori e anche proprietari e dirigenti vanno e vengono, ma i tifosi restano. Ma in questo momento il loro ruolo è fortemente messo in discussione: il ruolo del tifo, e in particolare di quello ultras, è molto discusso, e spesso in negativo, ma c’è anche la questione dell’aumento dei prezzi dei biglietti che non segue affatto l’aumento degli stipendi. Andare oggi allo stadio è sempre meno conveniente, ma anche i prezzi degli abbonamenti alle reti televisive non sono affatto economici e anzi tendono a crescere. In Italia, in particolare, la voce dei tifosi non conta molto per le società e le federazioni, ma già solo in Germania essi detengono per legge la maggioranza delle azioni dei club e hanno un peso enorme sulle decisioni dirigenziali.

Si parla anche di calcio e guerra. In nessun altro conflitto militare, come in quello scoppiato nei Balcani nel 1991, il calcio ha avuto un ruolo così predominante. Come se lo spiega?
I Balcani hanno sempre avuto una forte tradizione calcistica – la Jugoslavia era una delle sole quattro nazionali europee a prendere parte alla prima edizione dei mondiali, nel 1930 -, per cui è normale che il calcio abbia avuto un ruolo di rilievo nel disastroso conflitto degli anni Novanta. Un ruolo che però è stato anche molto esagerato dai media occidentali, ansiosi di dipingere i Balcani come una terra «di calcio e guerra». La storia secondo cui il conflitto sarebbe iniziato con la famosa «battaglia» dello stadio Maksimir tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado (13 maggio 1990, ndr) è appunto un mito: quell’episodio fu piuttosto uno tra i tanti che dimostrano l’emergere sempre più forte di tensioni etniche tra i vari popoli balcanici in quel periodo. Ma d’altronde già Eric Hobsbawm (storico britannico ndr) spiegava che è molto più facile identificare il proprio spirito nazionale, quando questo è incarnato da un gruppo di atleti. Il calcio nasce con i club, mentre la diffusione delle squadre nazionali tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento va di pari passo con l’ascesa delle tensioni nazionalistiche che poi condurranno alla Grande Guerra.

I calciatori «ribelli» sono molti nella storia del calcio, ma lei si sofferma in particolare sul cileno Carlos Caszely…
Caszely ha avuto la sfortuna di vivere gli anni migliori della sua carriera e della sua vita proprio mentre il suo Paese, il Cile, veniva travolto dalla brutale dittatura di Pinochet. Il suo status di calciatore famoso, che giocava anche in Europa, gli permise di affermarsi come un simbolo di opposizione al potere senza subire grandi ripercussioni. Una cosa che ad altri suoi colleghi meno blasonati, in Cile ma anche altrove, non fu possibile. Ma quello che mi preme più sottolineare della sua storia è quando parlò alla televisione, a carriera ormai finita, per chiedere di votare contro Pinochet al referendum del 1988: accanto a lui c’era sua madre, che è la vera protagonista di quell’episodio, una ex militante socialista che era stata arrestata e torturata dal regime. La voce di quella donna, Olga Garrido, poté smuovere il Cile perché suo figlio, un ex calciatore molto amato, usò il suo ruolo per farla parlare in televisione.

Nel libro non si parla di omosessualità, tema molto importante visto anche il coming out di alcuni giocatori famosi. Perché questa esclusione?
L’omosessualità non appare nel libro perché esso è orientato alla lotta di classe nel calcio e purtroppo l’omofobia è stata a lungo un problema politico trasversale. Ancora oggi abbiamo a che fare con una forte resistenza del mondo del calcio, a vari livelli, al tema dell’omosessualità. Ho pensato che il tema non fosse coerente con l’impostazione del libro, ma mi sono sentito in dovere di spiegare il motivo nelle prime pagine facendo anche qualche esempio di quella trasversalità politica a cui accennavo poco prima. Brian Clough, grandissimo allenatore inglese e socialista dichiarato, è stato purtroppo responsabile di insulti omofobi contro un suo giocatore, Justin Fashanu, ai tempi del Nottingham Forest.