Storia di Vakhim, che diventò mio figlio
Intervista La regista Francesca Pirani ha raccontato in un documentario la storia del bambino che ha adottato: «Vakhim», dalle Notti Veneziane nella sezione Giornate degli Autori durante la Mostra di Venezia, al concorso del SalinaDocFest
Intervista La regista Francesca Pirani ha raccontato in un documentario la storia del bambino che ha adottato: «Vakhim», dalle Notti Veneziane nella sezione Giornate degli Autori durante la Mostra di Venezia, al concorso del SalinaDocFest
L’amore è la forza che ha guidato due donne, lontane nello spazio, nel salvare la vita del piccolo Vakhim: la prima è la madre naturale che ha scelto con dolore di lasciare il figlio e i suoi fratelli presso un orfanotrofio con la speranza di dare loro un futuro migliore; la seconda è Francesca Pirani che ha adottato il piccolo Vakhim e accolto con cura il suo dolore, guidandolo verso un futuro più sereno. Pirani, madre e regista, ha deciso di aprire le porte della sua casa e raccontare la straordinaria storia del figlio Vakhim nell’omonimo film, realizzando un documentario intimo in cui le immagini dell’arrivo del piccolo in Italia, con il triste distacco dai ricordi della Cambogia, si intrecciano alle immagini del presente quando Vakhim ora adulto, rincontra la madre biologica. Il film, prodotto da Land Comunicazioni, ripercorre i difficili passaggi emotivi della famiglia affrontando i temi della memoria e dell’identità, ma soprattutto porta a riflettere sul dolore della separazione e della perdita. Dopo la presentazione alle Notti Veneziane nella sezione Giornate degli Autori durante la Mostra di Venezia, il film prosegue la sua corsa nel concorso del SalinaDocFest e nella rassegna Notte veneziane a Roma presso il cinema Farnese.
Cosa ti ha spinto ad aprire al mondo l’intimità della tua famiglia e a raccontare la storia di Vakhim?
Non avrei mai fatto un film sulla pelle di mio figlio se non fosse stata una sua richiesta, così nel 2019 partecipai al premio Solinas per il documentario e arrivai tra i finalisti. Per noi l’aspetto più importante era il lavoro sulla memoria, capire cosa succede a un bambino che perde tutto e da un momento all’altro non ha più la sua lingua, la sua famiglia, tutto il suo mondo; la domanda fondamentale era qual è il prezzo che paghi per poter ricominciare tutto da capo. Nel tempo ho fatto tanti filmati di Vakhim da piccolo, come tutti i genitori, ma il motivo era soprattutto per dare la possibilità a mio figlio di potersi rivedere da grande perché sapevo che nel tempo avrebbe perso i ricordi della Cambogia e soprattutto avrebbe avuto degli elementi di ricerca per comprendere cosa gli è accaduto, come stava quando è arrivato e successivamente quando abbiamo scoperto la presenza dei suoi fratelli in Italia. Poi questa storia si è protratta nel tempo ed è nata la seconda parte: sono arrivate le lettere della madre naturale di Vakhim e tutto ha preso dei risvolti che non erano facili da raccontare, perché coinvolgevano altre famiglie e il progetto del film è diventato possibile solo nei pochi mesi prima del viaggio in Cambogia.
Nel film è presente un secondo livello di narrazione, quello cinematografico con cui racconti i ricordi di Vakhim in Cambogia. Perché hai deciso d’inserire queste ricostruzioni all’interno del documentario?
Premetto che non nasco documentarista e non ho mai voluto fare un documentario classico perché il mio gusto cinematografico non è quello del super realismo, non ci credo a queste cose, credo che anche sulla verità è sempre lo sguardo di chi guarda che orienta ed esclude delle cose. Questi ricordi sono sparsi all’interno del film e sono funzionali per raccontare alcune cose di cui non avevamo immagini; per esempio i primi anni che Vakhim era con noi continuava a esplorare e a comunicare un suo mondo, faceva dei paralleli tra cose che ricordava ed elementi che riconosceva o assomigliavano. Era come se vivesse sempre su un doppio binario e mi son detta che dovevo far vedere questo mondo che riaffiorava, così quando siamo andati in Cambogia abbiamo ricostruito queste memorie con dei bambini di lì.
Com’è stato per te girare questo film come regista e soprattutto come madre?
Prima di partire ci sono stati dei dubbi, se era la cosa più giusta da fare, ma ho sempre pensato che è meglio andare fino in fondo in modo che questa donna non rimanga un fantasma, ma una cosa concreta che puoi affrontare. In ogni caso avrei voluto incontrare questa madre per me, mi sembrava una cosa dovuta perché questa donna ci aveva cercato, perché avvertì tutto questo dolore. Mi hanno sempre chiesto se provavo un senso di gelosia, se avevo dei problemi rispetto al fatto che c’era questa altra madre; assolutamente no e la trovo una cosa assurda. So che c’è un rapporto d’affetto forte con Vakhim, ma non mi toglie niente anzi, io spero di poter tornare a trovarli e se è possibile di aiutarli. Però è stato molto difficile sentirsi anche regista perché un conto è raccontare e un conto è mettere questa storia per immagini, arriva un momento in cui devi cercare di sdoppiarti e in questo mi ha aiutato molto il montatore Nicola Moruzzi con cui abbiamo scelto di fare un racconto che parli al presente e non al passato, come un diario, cioè mettere la consapevolezza dell’oggi anche nel passato. È stato molto più faticoso che fare altri film perché sentivo una responsabilità grandissima verso mio figlio, non volevo tradirlo e volevo che ci fosse tutto così che lui potesse riconoscersi.
La storia di Vakhim si avvolge su temi complessi come la memoria e l’identità. Non è difficile pensare ai figli immigrati o di seconda generazione che si trovano a vivere anche loro su un doppio binario tra i ricordi di un paese lontano e la loro vita in Italia. In questo senso i temi del film assumono un significato universale.
Sì, molti mi hanno detto che al di là dell’adozione è un film sulle separazioni e sulla perdita, un processo che molte persone hanno affrontato quando per necessità sono finite a vivere dall’altra parte del mondo e hanno portato, insieme a alla loro disperazione, un bagaglio pieno di ricordi e nostalgia della loro famiglia e del loro paese; un bambino ha già vissuto tante cose molto importanti che non dimentica, sono il substrato che non puoi annullare anzi, è il punto da cui partire per far rinascere la fiducia e ricominciare. Per quanto riguarda l’identità per me ci sono due strade, l’identità di appartenenza generalmente è quella che divide e per cui la gente si ammazza: tu sei di uno stato e io di un altro, io ho una religione e tu un’altra; sono tutte cose che ti danno apparentemente la tua identità ma sono le cose per cui la gente arriva a fare delle cose terrificanti, dalle guerre di religione alle guerre etniche. L’identità umana, invece, è qualcosa di profondo ed è uguale per tutti: è il rapporto madre figlio, è la storia della propria nascita, l’amore e il proprio mondo inconscio; sono questi gli elementi che ci aiutano a comunicare con l’altro e a comprendersi.
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