Dopo quello di Roberto Sani (recensito su «Alias-D» dell’8 maggio 2022) esce oggi un nuovo volume dedicato all’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole superiori, vicenda che trovò uno snodo nella riforma Gentile del 1923, quando la materia divenne obbligatoria nei licei classici. Il libro di Susanne Adina Meyer, storica dell’arte, deve considerarsi complementare a quello di Sani: Cenerentola a scuola Il dibattito sull’insegnamento della storia dell’arte nei licei (1900-1943), EUM, Macerata, pp. 256, euro 24,00.

Se Sani ripercorre la questione attraverso le disposizioni legislative, Meyer analizza il dibattito teorico che si agglutinò attorno alle varie proposte relative all’insegnamento della materia, partendo dalla prima Circolare ministeriale emanata nel 1900 dal letterato e deputato Enrico Panzacchi, per arrivare alla caduta del fascismo. Dibattito che fu animato dai maggiori storici dell’arte del tempo, ma anche da insegnanti e presidi di liceo che avvertivano più concretamente l’urgenza di una definizione degli orari, dei programmi, di congrui strumenti didattici, del ruolo professionale.

Il nome di Panzacchi non cadrà inosservato. In quanto insegnante di storia dell’arte all’Accademia di belle arti di Bologna, egli mise in luce l’aspetto del passaggio da un insegnamento rivolto agli artisti, consolidato da tempo all’interno delle accademie, a uno nuovo, concepito per destinatari ben diversi, studenti delle Università e della scuola superiore. Un tema che toccava il senso ultimo della storia dell’arte, sollevato da Adolfo Venturi già a fine Ottocento e da allora dibattuto animosamente, anche nella sede dei congressi internazionali di scienze storiche, e poi, dal 1912, di storia dell’arte.

In età giolittiana quel dibattito poneva una domanda cruciale: quale Italia si poteva o si doveva costruire attraverso la storia dell’arte? La materia doveva restare appannaggio di una élite «nello spirito dell’umanesimo classicista di stampo casatiano inteso come un baluardo agli stravolgimenti culturali e sociali propri della modernità», o non era forse proprio attraverso una sua divulgazione, «elementare ma non superficiale», che l’Italia avrebbe potuto finalmente diventare una nazione moderna? I primissimi anni del Novecento vedono in effetti nascere una fioritura di corsi di storia dell’arte nelle scuole, organizzati quasi spontaneamente da docenti universitari, direttori di museo, eruditi locali. Alcuni insegnamenti (come quello che Serafino Ricci tiene al Beccaria di Milano) si rivelano estremamente aggiornati e innovativi sul piano della teoria e della didattica, che ora non può più prescindere da sussidi quali gli album illustrati, ma anche le meravigliose lastre luminose che proiettate nel buio delle aule captano l’attenzione incantata dei giovani.

Certo, gli studenti di liceo erano una ristretta minoranza, e lo saranno ancor più i giovani dei licei classici che la riforma del ’23 individuerà come naturali depositari di questo sapere. Ma a inizio secolo, nello spirito solidarista del tempo, si registrano iniziative democratiche, come le ‘cattedre ambulanti’, immaginate dallo stesso Ricci assieme al progetto di «un corso unico di storia dell’arte per tutte le scuole secondarie, classiche, tecniche, artistiche». In ogni caso, in quella fase aurorale si avvertì chiaramente che l’arte era anche «un fenomeno sociale»: lo scrisse nero su bianco in una Circolare del 1903 il ministro della P.I. Nunzio Nasi, colui che un anno prima aveva promulgato la prima legge per la «tutela e la conservazione dei monumenti ed oggetti aventi pregio d’arte o di antichità».

Come quello di Sani, anche il volume di Meyer si arricchisce di una Appendice documentaria dove vengono riportati tutti gli interventi commentati, originariamente comparsi su una selva di riviste e organi di stampa. Leggendo quei testi emergono temi ma soprattutto lessici che si rivelano preziosi per ricostruire il ‘discorso sull’arte’ in Italia nella prima metà del secolo. Giustamente Meyer sottolinea l’incrementarsi degli appelli all’educazione al ‘vedere’, percepito come nodo fondamentale della pedagogia dell’arte, ma anche come intrinseco atto estetico, teso a superare l’approccio sentimentalista, le letture storiciste, e quel ricorso tardottocentesco alla verbalità (di opere d’arte come «misteriosi fonografi» che i giovani dovevano imparare ad «ascoltare», scriveva ancora Panzacchi) con cui si assimilava l’arte figurativa alla poesia.

Un’aula di storia dell’arte (post 1923), Modena, Archivio fotografico dell’Istituto d’Istruzione Superiore «Adolfo Venturi»

Un processo di avanzamento metodologico che va di pari passo con quello di autonomizzazione della disciplina e che, passando per gli allievi di Adolfo Venturi (in primis Pietro Toesca), trovò il suo compimento nel Saper vedere di Matteo Marangoni (1933). Autonomizzazione che tuttavia stentò ad attuarsi nella realtà della scuola, a partire dalla scelta dei programmi e delle loro cronologie: il dilemma verteva sull’arte antica (divenuta poi evidentemente centrale con le Direttive Bottai del 1938), ma soprattutto sulla contemporaneità, tema piuttosto eluso, e comunque risolto con un’apertura solo parziale, dato che i programmi non superavano il giro di boa del Divisionismo.

Sin dai programmi ministeriali del 1923 notiamo poi l’imporsi della nozione di ‘gusto’, inteso come elemento centrale della Bildung dei giovani e dunque futuri cittadini, di un percorso condiviso di educazione all’arte intesa come crescita civile, ma anche più concretamente produttiva (gusto come orientamento imprescindibile per le realizzazioni di alto artigianato). Sono in effetti questi gli anni di quel Gusto dei Primitivi (1926) con cui Lionello Venturi poneva quella nozione al centro di un’analisi che teneva conto della sua storicizzazione. E non a caso, forse, proprio in quello stesso anno il figlio di Adolfo interveniva sulle pagine degli «Annali della istruzione media» con un articolo programmatico, in cui ribadiva che la «inquadratura storica» non si opponeva al «giudizio estetico», ma invece doveva saldarvisi, per permettere agli studenti di «maturare la loro cultura artistica e riflettere sulle loro idee»; insomma, se gli italiani dovevano essere educati alla storia dell’arte, era proprio attraverso la formazione di un gusto – inteso come capacità di giudizio, e dunque come atto critico (non a caso un altro termine che torna frequentemente in questi anni è quello di ‘coscienza’) – che bisognava insistere.

Il lemma riaffiorerà negli scritti dei collaboratori stretti di Bottai, in particolare il giovane Argan, nel cui intervento programmatico del 1938 destinato all’insegnamento nei licei classici emerge però una nuova inflessione critica, quella di arte come «linguaggio», spia questa del perdurare delle posizioni della Estetica crociana, rilette però alla luce del pensiero di colui ne fu uno dei più limpidi interpreti, Julius von Schlosser.
Un ultimo punto che emerge con forza dal libro è quello della rappresentanza femminile, e cioè di quel «piccolo ma agguerrito gruppo di allieve di Adolfo Venturi» che si trovarono a insegnare la materia nei maggiori licei d’Italia, senza tuttavia disporre di una vera e propria cattedra; anzi, proprio intorno al 1938 le stesse docenti incaricate si vedranno minacciate dalle ‘epurazioni’ legislative tese alla progressiva esclusione della donna dal mondo del lavoro. A studiose come Mary Pittaluga, Paola della Pergola, Luigia Maria Tosi si deve, probabilmente, l’azione più incisiva tesa a portare la storia dell’arte «dal ruolo di Cenerentola a quello che giustamente le spetta».

Ripercorrere, con Susanne Adina Meyer, la difficile affermazione della storia dell’arte sui banchi di scuola equivale a comprendere le origini del nesso imprescindibile tra conoscenza democraticamente attuata del linguaggio artistico e rispetto del patrimonio. Rispetto che significa atto responsabile di cittadinanza, ben diverso dalle banali e fuorvianti riduzioni sentimental-patriottiche, spesso, ieri come oggi, finalizzate all’equiparazione patrimonio/turismo. Lo avvertiva già Panzacchi nel 1899 in un pungente articolo sul Corriere della Sera: «Non mi è possibile immaginare che gli innumerevoli tesori d’arte che noi possediamo e custodiamo, non debbano avere oramai scopo più alto che quello di attirare nelle locande d’Italia i milioni calcolati dal mio amico Maggiorino Ferraris (Ministro delle Poste e dei telegrafi)!».